Uno, due, tre, quattro progetti ufficiali. Uno, due, tre, dieci anni di carriera. Il tempo batte il suo passo come un militare in marcia: scandisce passaggi, preme sul mercato discografico, pesa sulle spalle degli artisti. Un decennio discrimina e divide, definisce un emergente da un protagonista della scena, le nuove leve dalle fonti di ispirazione. In un mercato in cui un secondo album è il pass per lo star system, il quarto progetto ufficiale deve essere il cristallo di una collana di perle.
Arrivato a questa altezza di una carriera cosa ci si aspetta? Cosa definisce le attese di un pubblico che si approccia ad un artista affermato? Cosa costruisce l’hype e cosa fondamenta la reale aspettativa?
Questo intreccio di domande ha avvolto il mio dito mentre riproduceva la prima traccia di “FERITE”, il quarto progetto di Capo Plaza.
Questo album l’ho atteso, come chi cerca una fonte d’acqua in un deserto di bellissime chimere. L’ho immaginato, ammantato di ciò che ho sempre sentito mancare nella discografia di questo artista: ho sperato che in questo disco potessi finalmente trovare il filo che congiungesse le diverse anime di un rapper poliedrico, ma perennemente inespresso.
L’anno di Plaza è stato divorante, una palla di neve che più scende lungo il suo declivio più diventa imponente: l’estate 2023 suona “Vetri Neri”, che chiude il suo anno imperando sulla classifica, con 40 milioni di streaming; qualche mese dopo anche quella fetta di pubblico più affezionata allo street rap viene accontentato da “Freddy Krueger Freestyle”.
Più volte mi sono ritrovato a pensare che Plaza è carezza e schiaffo, melodia e quattro quarti. “Nato Per Questo” chiude l’anno passato e “Acqua Passata” ha aperto l’anno corrente: due singoli che hanno aperto una finestra nuova su Capo Plaza.
Sfogliando il catalogo dei brani isolati del rapper salernitano, ci si rende conto che, per anticipare un disco, Plaza non aveva mai scelto brani introspettivi, non aveva mai mostrato le sue debolezze. Questa volta, invece, sembra che si stia procedendo in maniera diversa: i due brani traboccano fragilità, ripercorrono la vita dell’artista e sono il richiamo di un disco che vuole addolcito dall’oscurità della notte, non dalle luci di un club.
“FERITE” arriva e la sua confezione rispecchia le aspettative. Sulla cover il rapper è di spalle, le mani sulla nuca. Tutto è in bianco e nero: sulla sua schiena si stagliano ferita da cui sgorga del sangue. Lo stesso che macchia, indelebile, l’intro del disco, la title track:
E, baby, qua tutto finisce, siamo gli unici che durano
Capo Plaza – Ferite (FERITE, 2024)
Vengo da un posto putrido, le ferite non passano
Il brano si apre con un coro gospel, in sottofondo una chitarra e un riverbero. La voce del rapper, quasi affaticata, ripercorre una vita in cui sacrificio e successo sono compagni inseparabili: per ogni traguardo un graffio sulla pelle, per ogni centimetro guadagnato c’è un rapporto falso, una storia di vita difficile. Tutto passa, ma non quella narrazione di strada, quelle cicatrici. Tutto passa, ma non l’interlocutrice a cui Plaza si rivolge nella traccia.
Lei. C’è una lei in “Ferite”, controparte assoluta di tutto il progetto, onnipresenza in quasi tutte le tracce. L’ascoltatore impara a conoscere questa figura con il tempo, assiste al dialogo che Plaza tiene con lei e scopre un nuovo lato dell’artista, rimasto in disparte negli altri progetti: la relazione con l’altra è croce e delizia del cuore, salvezza e maledizione, unica ragione di vita e motivi di totale perdizione.
E così “Money Rain”, in collaborazione con Lazza, racconta di un litigio furioso, di una notte trascorsa a pensare; “Oh Amore” è un’ode all’amata su cassa diritta, a una lei che è ancora in una tempesta; “Sottovuoto” è la cronaca di un relazione indomabile, che vive e si consuma nei suoi estremi: ogni bacio una ferita, ogni carezza uno squarcio sulla carne.
Le sue labbra che mi sfiorano, emozioni fragili
Capo Plaza – Sottovuoto(FERITE, 2024)
Ferite non migliorano, peggiorano ogni giorno
C’è un Plaza inedito in queste tracce: eccola l’acqua del deserto, la chimera che addolcisce l’agonia, ciò che avevo terribilmente atteso.
Ma qualcosa non funziona. Il disco continua: “I Miss U” con Tony Boy racconta la scissione interiore di un artista che sta imparando a dialogare con i suoi sentimenti, tra il freddo delle collane e il calore dei suoi sentimenti; “Baby Girl” campiona “21 Questions” di 50 Cent e Nate Dogg, l’atmosfera è più scanzonata, ma le coordinate della narrazione restano sempre le stesse: amore, strada, soldi, sesso.
Il disco non regge e crolla su stesso. Plaza consegna e sviscera un nuovo lato della sua interiorità, scava nelle viscere della sua storia, buca l’epidermide dei suoi sentimenti, ma non riesce a riempire i 51 minuti che costituiscono la lunghezza del progetto.
Il sangue, così autentico nei primi brani del LP, stupisce inizialmente e rappresenta un importante passo in avanti nella carriera dell’artista, ma con l’alternarsi delle tracce sembra diventare terribilmente artefatto, quasi come se Plaza raccontasse il racconto della sua stessa storia: così all’altezza di “Memories”, in collaborazione con un Annalisa che vesti i panni di diva dell’urban, il progetto comincia a perdere di compattezza, di identità.
Baby, vieni, siamo a un passo dalla fine
Capo Plaza – Memories feat. Annalisa(FERITE, 2024)
Ora dimmi come aggiusto ‘sto casino che mi sembra di morirе
Mo il diavolo bussa, è sempre puntuale
Vorrеi scappare ora, mi vuole intrappolare
A rendere, sul lungo periodo, il disco meno interessante contribuisce una scrittura che non regge sempre il confronto con la sua stessa delivery: Plaza nel disco sfoglia i suoi sentimenti, costruendo una complessità relazionale, un vissuto mai banale, un’emotività articolata che non corrisponde però alla varietà lirica, spesso aggrappata a delle scelte lessicali troppo note ai suoi stessi ascoltatori.
Per quanto l’album tematicamente rappresenti una rottura con la discografia precedente dell’artista salernitano, sembra che soffra la volontà di calcare la mano in quel senso, risultando così, per certi versi, monotono.
L’album sembra assumere grande valore nelle sue singolarità, nei singoli tasselli che costituiscono il suo mosaico. “Non C’è Love” costruisce tensione, si apre un beat drill perforato dalle ansie dell’artista, per sfociare in un intreccio di melodie: il brano funziona, ma sembra perdersi in un disco che più che problemi intrinsechi, dimostra problemi strutturali.
“Ferite” non è solo questo e, mai come in questo progetto, Plaza si rivela un artista assolutamente bicipite.
Nel disco brillano, forse proprio perché circondati dall’introspezione generale delle altre tracce, i brani in cui ritroviamo un Plaza spietato, abile rapper e punchliner, affogato nella sua fast life, tra ostentazione, denaro e successo. È in questi episodi che lo stile dell’artista torna a essere riconoscibile, nell’alternarsi di melodie, casse diritte e barre serrate: “Busy” non guarda in faccia a nessuno e sputa incastri sul tappeto sono che AVA cuce direttamente sulla lingua di Plaza; “Soldi Arrotolati” sembra uscire di soppiatto da un night dei primi anni 2000, accompagnata da ANNA che coro; “No Drama”, in collaborazione, con Mahmood è pura sperimentazione, tra trap, RnB e dance, dimostrando come i due artisti riescano a fondare i propri stili in un connubio autentico e mai banale.
Tiriamo le somme. Il disco delude? Non del tutto. Il disco soddisfa? Non del tutto. Giace in un limbo, nella tela delle domande che accompagnavano il mio dito al tempo del primo ascolto. Arrivato al suo quarto album Plaza svela qualcosa di sé e sembra spogliarsi delle vesti da camera per mostrarci i suoi graffi. Si impone una domanda: sono veramente così profonde le “FERITE” di Capo Plaza?
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