Il 10 settembre è uscito Dirty Harry 2, l’ultimo progetto di uno degli artisti più caleidoscopici ed attraenti della scena americana. Dal più turbolento DMV (genere hip-hop sviluppatosi nell’area che comprende Washington D.C., Virginia e Maryland) al mumble, fino all’introspective rap di cui Earl Sweatshirt, Navy Blue, MIKE e co. sono i principali esponenti, El Cousteau ha fatto del suo rap un manifesto cupo che, pur risentendo di plurime influenze, si mantiene al contempo identitario ed audace. El Cousteau è l’incarnazione della sua musica, la diabolica sintesi di una creatura priva di ogni scoria umana.

L’energia di tracce come Menace to Society o Straight To It è più vicina a quella di un punkabbestia o di un driller, tutto però viene incasellato in un’estetica da pappone perfido e posh. Il contrasto estetico con quello lirico è così esagerato da apparire quasi fuori luogo.
La manicure lucida, l’outfit preppy insieme al bucket maculato e peloso appena appoggiato in testa, sono uno statement tanto irriverente quanto le barre che raccontano delle rapine armate e del sangue strofinato via dalle mani. Basta guardare alla copertina dell’album per capire di cosa sto parlando.

Musicalmente, il suono grezzo ed industriale dei primissimi progetti ora è più centrato, sintetico ma stratificato. Basta confrontare tracce come Pico (feat. Earl Sweatshirt) e Steloni (Uuv A&A Series, Vol. 1 – 2019) per accorgersi del grado di raffinatezza raggiunta. Già con il primo capitolo, Dirty Harry (2023), El Cousteau aveva attirato l’attenzione di buona parte della scena, colleghi e critica inclusi, rimasta sotto a questo cocktail letale di personalità ed aggressività.
YeaYeaYea, Quid Pro Quo e 08.04.2024 ne sono l’esempio vivente. 808 bombati, chops violenti adornati da hi-hats essenziali e melodie distorte, quasi fossero impilate l’una sull’altra con una colla che ne mescola i colori. Tutti elementi di un sound che da anni ormai sta prendendo sempre più spazio, da Est ad Ovest.
Tutto finisce per fondersi alla perfezione, le barre sembrano uscire da bolle radioattive e dalla sua musica traspare uno spaventoso e a tratti apparentemente ricercato senso di smarrimento che crea assuefazione. Come dicevo, il talento strabordante del nativo di D.C. ha attirato subito l’attenzione di molti, da rappers a producers.
La sua è musica maledetta, che non accetta compromessi, che racconta con estrema sincerità ed orgoglio l’origine di un viaggio all’inferno, fatto con il culo sui sedili di pelle di una BMW.
“I know niggas cutting dope to sit outside the house and rob
You know where I’m coming from, growin’ up in that corner house
Put a pistol on his head (Okay), tell a nigga, “Lay it down”
I’m a dirty-ass dog, I don’t fear death no more (Fuck around)”
Ad El Costeau non frega niente di acchiappare il tuo sguardo, per quanto ne sappiamo lo stai già fissando. Vestendo i panni di un Joker della vita reale, strade e salotti post-shows non hanno impiegato molto tempo a mettergli gli occhi addosso.
La sua ascesa è così veloce che le strade della capitale americana, nota come “Chocolate City” per essere diventata nel 1957 la prima città a stelle e strisce con una maggioranza di popolazione nera, sembrano aver appena eletto il loro Presidente.
La storia di Washington e del suo alfiere sono infatti profondamente intrecciate. I suoi testi così come lo stile di vita che ostenta senza pudore sono al contempo segno e sintomo, mai cura. Niente di tutto questo però ha la pretesa di insegnare nulla.
“From the bottom to the top, I could climb up the mountain
Bring some my friends and the rest of my family (Straight up)
Nigga, you don’t deal with collateral damage
I got nothing to lose, when you die they be happy
Got a problem? When you see me, do somethin’ ’bout it, you bitch
Everything is aligned, we doing family events
I got three twenty-nine, doing zips for one-six
I’m around the corner where they got a robbery fix”
Washington è una città segnata dalla capillare e crescente presenza di forze militari, occupate soprattutto nel patrolling delle strade. Alla soffocante presenza delle autorità purtroppo è seguita negli anni l’attuazione di una politica criminale i cui caratteri hanno portato alla denuncia di numerosissimi episodi di razzismo che, a parere di uno studio condotto dalla American Civil Liberties Union of the District of Columbia (ACLU-D.C.), ha ormai raggiunto tratti sistemici. Come viene evidenziato nel report pubblicato nel 2024 dall’associazione, sebbene la popolazione nera nel biennio 2022-2023 fosse pari al 44% di quella totale, questa costituiva il 70% del campione cittadino fermato dalla polizia e perquisito.
Il dato per la popolazione bianca invece calava drasticamente all’11%. Le conclusioni alle quali lo studio giunge sono però soltanto la punta dell’iceberg. Al razzismo sistemico, che come si è visto appare insito nella politica di stop-and-frisk attuata dalla polizia, segue un esponenziale ricorso alla violenza armata che attinge principalmente le zone più povere e socialmente svantaggiate della città.
E così El Cousteau, come Buscapè nell’iconica scena di City of Gods, strizzato tra violenza istituzionale e di strada sguazza nel sangue col cuore pesante e degli Wellington di Burberry ai piedi. La musica diventa per lui esercizio di ribellione mentre la sua persona sintetizza, in un corpo solo, la necessità di rimanere in piedi anche davanti alla tragedia a patto che tu lo faccia con sicurezza ed abiti su misura.
“See, my daddy sold crack, my mama sold bowls (Yeah, yeah)
So I’m a product of the drug soul (Yeah, yeah)
Tan suit jacket, brown suede, factory rims, mid-roll (Alright)
Baby tell me that she love me (Alright), tell me what you down for (Woah)
To afford the cost of living, that’s what a nigga do crime for (Woah, woah, woah)”
Dai co-signes di Earl Sweatshirt e A$AP Rocky a vestire Wales Bonner sulle passerelle, El Cousteau è dappertutto e tra un attimo anche nella lista dei tuoi rapper preferiti. L’appena 25enne, ormai alle porte del mainstream, è molto più di un rapper underground dalle unghie smaltate e gli outfit da rockstar freschi di Fashion Week.
A metterlo sulla mappa: Words2LiveBy (feat. Earl Sweatshirt) singolo pubblicato l’anno scorso e poi finito nell’LP Merci, Non Merci (2024). Il videoclip, tra nevrotici tagli ed un’oscura estetica DIY aveva tenuto ostaggio l’intera comunità Twitter rimasta incantata dai flow imprevedibili di un MC che suona come un esperimento di laboratorio, tanto tossici da ispirare l’ex Odd Future a cavalcarne la nube. La traccia sembra uscita da un horror psicologico, l’atmosfera è la stessa di un labirinto dalle siepi vive, pronte a strangolarti non appena cerchi di riprendere fiato.
Con la nuova scena in buone mani da tempo, con MIKE per l’appunto a guidare la rivoluzione sonora degli ultimi anni, quella clip ha finito per cementare la solidità di un mostro a più teste che nessuno ha modo di fermare.
Di fatto, El Cousteau è il frutto di un progetto più ampio, come lui stesso ha riportato in un’intervista:
“It’s not just me with the Cousteau name, though. We got Manny, my other homie Tay, Manny’s brother Ron, there are more folks in this shit too, like my cousins. So there are definitely more Cousteaus. It’s a whole group. It’s a whole entity or collective.”.
Tra i tanti, presente in buona parte delle produzioni del suo catalogo è Cocà Cousteau, architetto dietro i beats sintetici di tracce come: B/W e Camo Socks, che rendono il socio così opaco e tagliente. L’entourage però va oltre le “mura di casa”.
Di collaborazioni di spessore se ne possono già contare, ma a fare la differenza è il legame con artisti come: Sideshow, Niontay e Tony Seltzer. A chi segue con attenzione cosa sta accadendo musicalmente a New York e il Rinascimento che “La Mecca” sta attraversando, questi nomi non suonano nuovi, visti soprattutto i numerosi tour in cui figurano (tra i tanti, Sideshow aprirà le due date italiane di Earl Sweatshirt).
Chi invece non ha ancora avuto la fortuna di incrociarli, questo è sicuramente il momento giusto. La sensazione è la stessa che nella metà degli anni 10’ si provava testimoniando l’ascesa della trap, con la differenza che l’originalità di artisti come questi, per quanto divisiva, sta premiando un’ondata di nuovi talenti che appaiono come un’unica grande crew.
Molti fondamentalisti del genere discutono sull’identità sonora di questo sotto-genere, personalmente credo mancando il punto. Non è il come o cosa si fa, si rischierebbe altrimenti di lasciare l’Hip Hop in un eterno letargo, quanto più la spinta identitaria che si cela dietro quel sound.
Credetemi, da ascoltare c’è parecchio, ma la qualità è incredibilmente alta rapportata alla quantità. Mentre l’industria continua a spingere un modello discografico estenuante e pieno di filler, la chiave di lettura dietro i progetti di artisti come questi è l’essenzialità. Gli album sono corti, le tracce vanno raramente oltre i due minuti e mezzo ma lì dentro c’è tutto, un denso pacchetto di prose violente, mature riflessione ed odi al lusso da sempre proibito e ora posseduto.
Il livello di profondità ed originalità è notevole. Dopo anni che l’Hip-Hop fatica ad uscire da una preoccupante cristallizzazione, l’aria che si respira è finalmente delle più fresche.
Tornando ad El Cousteau, si tratta di un rapper dall’enorme versatilità. Dall’estetica che alterna scenari alieni a pomeriggi soleggiati sugli spalti di Wimbledon, la sua è musica polimorfa. Non sorprende che nel mondo subumano che ha costruito ci sia spazio per sonorità e scene più melodiche, tuttavia mai abbastanza da snaturarlo del tutto.
Bergamot, Cause & Effect e 6 cornrows,ad esempio, con strumentali morbide che strizzano l’occhio all’R&B più rilassato segnano momenti più digeribili che El Cousteau non rinuncia mai di stravolgere, sfruttando campionamenti soul pronti ad essere stravolti dalla pistola nascosta sotto al blazer.
Mai come ora D.C. è sulla mappa. Una città dominata da palazzi che promettono sicurezza e controllo, fagocitante un mondo sotterraneo in rivolta. In tutto questo El Cousteau è in prima linea, figlio della violenza che quelle strade testimoniano, pronto finalmente a prendersi tutto.
La lussuria e la gola sono due dei sette vizi capitali, spie di una corruzione morale che disorientano ed offuscano l’animo instillando un perverso senso di libertà. Ad El Cousteau però tutto questo non sembra importare nulla. La sua è musica dissacrante nella quale è inutile cercare conforto o soluzioni, e anche se non sembra esserci davvero libertà quando si è schiavi dell’io, lui è così tanto convinto del contrario da farti scendere la bava dalla bocca.

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