In esclusiva, abbiamo avuto il piacere di realizzare un’intervista con il Giovane Feddini, promettente artista della Dogozilla, che ci ha permesso di addentrarci tra le rime e i significati del suo primo album ufficiale “Un Giorno In Meno”.
IDENTIKIT
Giovane Feddini, nome d’arte di Federico Vettore, è un rapper italiano classe 1992 originario di Padova. Il rapper, dopo decine di mixtape (solisti e in gruppo), dopo le molte comparse in importanti battle, iconica quella al Mic Tyson e il singolo rampa di lancio “Lampioni”, nel 2018 firma con la Dogozilla Empire di Don Joe. Il percorso di Giovane Feddini in Dogozilla trova una prima tappa importante nell’apparizione a Real Talk e i primi singoli rilasciati sotto la medesima etichetta e sotto l’occhio vigile dello storico beatmaker. Oltre alle diverse collaborazioni fatte con Dani Faiv, al potente curriculum del rapper si aggiunge anche la collaborazione fatta a Febbraio con Egreen, nella traccia “Hater”. Scaldatosi a dovere con la pubblicazione di luglio 2020 del mixtape estivo “Carnevale di Venezia”, il Giovane Feddini si appresta a chiudere il suo primo disco ufficiale “Un Giorno In Meno”, sotto Dogozilla e noi, per gentile concessione, dopo un ascolto in anteprima dell’album, abbiamo avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere con lui sul progetto.
Intervista a Giovane Feddini
“Un Giorno In Meno” è un disco che picchia forte, d’impatto, come dovrebbe essere d’esordio ufficiale, le tematiche sono tante e le cose di cui parlare anche, ma iniziamo subito ad addentrarci nei testi.
In redazione abbiamo notato che il disco è pieno di punchlines, di veri pugni in faccia, capaci di spaziare su molte tematiche che però non vengono approfondite ma risolte in poche barre, senza poi scendere nel dettaglio. Molti argomenti non sono stati approfonditi perché questo è un disco di presentazione al grande pubblico? Il tuo scopo era quello di portare solo un assaggio?
Il disco è di presentazione, avevo tanto da raccontare, quindi ho cercato di dare più schiaffetti correttivi. Ho lavorato affinché la scrittura fosse fine, dimostrando la differenza tra una scrittura di esercizio e una, se vogliamo, più emotiva. Ho affrontato il disco con due strade in mente: la strada di quando voglio andare libero su un beat melodico sperimentando con la voce, partendo dal mio timbro per poi capire quali evoluzioni posso prendere, dove mi può portare la musica. L’altra via, che è emersa in altre situazioni, è quella del ritorno al mio alter ego “Fed Spartaco”, l’altro me che potevi trovare nelle battle. Negli esercizi di stile mi piace dimostrare di avere una penna fastidiosa, il mio obiettivo è quello di essere ricordato come una leggenda di questo genere, platini o no non importa, certificazioni o non certificazioni, spingerò per essere ricordato come una delle penne più forti del Paese.
Finisco di rispondere, ho comunque cercato di essere il più diretto possibile, ho cambiato tanti più flow possibili perché nei miei vecchi progetti mi si faceva notare che prestavo troppa attenzione a cosa dicevo ma meno a come lo dicevo. Ho fatto sì che il progetto risultasse un buon bilanciamento di queste mie due parti.
“Un Giorno In Meno” è un album di presentazione che dovrà mappare il tuo percorso artistico e all’interno di questo progetto ho notato che nomini più volte Milano, una piazza altamente competitiva con una scena in fervore. Se tu dovessi auto-collocarti fisicamente in Italia, dove ti posizioneresti? A Milano? Se sì, come quartiere o come zona?
Difficile mappare oggi un punto di ritrovo per artisti, io mi trovo nella zona di Milano Sud… vivo a Gratosoglio (quartiere nella periferia meridionale milanese), poi mi sono trasferito a Rogoredo per fare musica, durante la zona rossa, nell’appartamento dei miei amici padovani della Plaza, che è una casa di produzione che sta nascendo ora, lì militano diversi producer, il grafico che si è occupato del mio progetto, dei videomaker e altri ancora, con loro ho completato quello che, del disco, avevo creato in precedenza.
Milano è molto competitiva, ogni quartiere è caldo e ha voglia di emergere con la musica, anche a Gratosoglio ho trovato diversi giovani che sono veramente forti, ma il mio caso è particolare perché mi muovo in un’altra città, che è Milano, portando però sempre Padova nel cuore, ma lo faccio rappresentando al 100% la realtà che ho vissuto.
Come ho potuto ascoltare, ci sono linee di demarcazioni ben forti che fanno capire che la lavorazione del prodotto è stratificata, figlia di più lavorazioni, è così?
Io per lavorare ai miei progetti, a meno che non abbia già una direzione, mi lascio guidare dal momento e faccio più brani possibili. I brani che nascono in quel momento sono figli dei miei ultimi ascolti e di quello che voglio comunicare, poi da lì vedo quali sono i pezzi più forti e capisco che direzione può prendere il disco. Le canzoni più forti che sono uscite sono “Bravi Ragazzi”, “Dispettoso” “Shevchenko”, per esempio “High in Lambrate” e “Magnifico” le tenevo nel cassetto dal 2018, ma dopo i brani più aggressivi e scanzonati c’era il bisogno di dare il significato e l’anima al progetto, aggiungendo i singoli creati con la sperimentazione delle melodie di cui ti parlavo prima. A volte, quando rappo sono una fontana di citazioni, cerco sempre di essere complesso, di creare proprio dei pattern lirici ben precisi che mettano bene in risalto i giochi di parole, quando canto invece vado di anima libera, infatti in queste situazioni capita anche che non chiuda qualche rima perché per me diventa una questione di sentimenti, di percezione e delle corde che voglio toccare nelle persone che mi ascoltano. In questo modo è nata la seconda parte, quella creata in zona rossa: in pieno inverno sono nati brani come “Millepiedi”, “Fuego”, “Gentile”. Le canzoni più forti, quelle che come hai ben detto tu “di allenamento”, sono state partorite tra settembre e ottobre 2020, fresco delle vibrazioni milanesi: c’era ancora bel tempo, si poteva uscire, infatti si sente la carica, la voglia di spaccare e la voglia di sfogarsi.
Mi hai anticipato, avrei virato sul fatto che il disco è bipartito in una sezione dura, di allenamento e una più emotiva, ma ciò che trovo davvero apprezzabile è che dentro al disco non c’è la hit da radio, cosa che invece molti emergenti generalmente fanno con in testa il fine di entrare in qualche playlist. Credo che sia un bene, tutto ciò rende il disco molto più naturale. La ricerca della hit oggi è diventata quasi spasmodica, la ricerca del pattern musicale che risulti catchy alle orecchie degli ascoltatori è quasi nauseante, ma poiché il tuo disco ne è sprovvisto, quali pensi siano i brani che possano fare da traino a tutto il progetto? Quelle più forti, identitarie?
Grazie mille per il complimento. Devo fare però un preambolo, perché chi mi ascolta da tempo è sempre stato abituato ad un certo tipo di ricerca musicale, quindi se io facessi un brano acchiappa-ascolti, gli ascoltatori stessi non se la berrebbero. Quando cerco di fare qualcosa che sia più orecchiabile, più semplice, cerco sempre di comunicare una parte di me, come nel caso di “Millepiedi”: ero in studio con Ric De Large e con Dessa One e mentre scrivevo il brano avevo solo il ritornello nato su un rif di chitarra di Dessa. Mentre ero impegnato a riempire il testo di parole, Ric e Dessa mi hanno fermato e mi hanno detto di riscriverla mettendo meno parole possibili, ecco, quella è stata una sfida come autore: non aveva senso fare mille extrabeat, serviva parlare poco, bene e dire le cose giuste, proprio come quando sei con una persona con cui devi fare quel tipo di discorso che è nella canzone. Quando devi dire qualcosa di importante e parli con la persona in questione non ha senso girarci intorno, devi essere breve e coinciso, devi andare dritto al punto aspettando la sua risposta.
Comunque, tra i brani più forti metto “Millepiedi”, tanta anima, “Dispettoso” invece dimostra che l’altra mia parte rap è sempre calda e mirata a dimostrare di essere una delle penne più forti d’Italia, e “Bravi ragazzi” per la forza con cui ho voluto sfogarmi e per la foga con cui ho voluto sfidare la mia stessa scena, perché dopo anni che mi definiscono eterno emergente ho voluto dire “ok mettiamo le carte in tavola, basta guardare i numeri e le certificazioni, facciamo parlare la musica: io lancio questo pezzo, voi come mi rispondete?” Questo è il mio approccio competitivo del rap perché il rap è sì anima, ma è anche uno sport, è la bellezza del genere, con “Bravi Ragazzi” ho lanciato una sfida sportiva alla scena e ho chiesto, ok, fate qualcosa meglio di questo.
Se andassimo a ricercare le radici del genere, ci renderemmo conto che il Rap è competizione. Analizzando le componenti sociali e antropologiche ci accorgiamo che l’ostentazione dei propri averi, risultato della vittoria nella competizione, nasce in realtà per trasmettere, in chi non ha molto, quella voglia di raggiungere determinati risultati. Tu, nei tuoi testi sottolinei che l’ostentazione qui in Italia è fine a sé stessa, quindi ciò che chiedo, è, nel caso in cui questo album faccia il botto come ovviamente ti auguro: come ti rapporteresti all’ostentazione, saresti favorevole ad esibire la tua vittoria e le tue ricchezze in modo sfarzoso?
Sicuramente migliorerei il mio vestiario, ma non sono tipo da collanazza, sono molto sportivo, clean.
Se devo essere sincero, non ho milioni, macchine lussuose, non ho harem di donne facili da mostrare, non posso nemmeno parlare di queste cose perché non le ho mai viste e comunque lo sfarzo continuamente esibito è quasi sempre uno specchietto per le allodole. So benissimo con chi potrei e con chi non potrei collaborare, anche per via di ideali diametralmente opposti, di conseguenza cerco la coerenza, non ostento quasi mai, cerco piuttosto, da liricista, anche nei pezzi come “Jetski”, “Bravi Ragazzi” e “Dispettoso”, di non dire cosa ho ma cerco di mandare dei messaggi, di parlare alla nostra cultura Hip Hop, di cui adesso sento il bisogno, perché vedo gli eventi che vengono trattati dai media e le persone che vengono scelte in tv come esponenti del nostro genere. Facci caso, non vengono mai chiamati personaggi come Ghemon, Mecna, Murubutu o anche semplicemente Jack che è laureato, Johnny Marsiglia… no, chiamano persone che creano scandalo, quindi anche se in altri blog non facenti parti della cultura Hip Hop mi hanno ammonito perché parlo troppo di rap, in tracce come “Dispettoso”, “Shevchencko” e “Jetski”, questi devono tenere a mente che questo genere in Italia è abbastanza grande da poter permettere a noi rapper di prenderci dei momenti musicali per poter parlare e cercare di migliorare la nostra cultura.
Hai lanciato ottimi spunti nella tua risposta, quindi mi attacco ad una delle prime cose che hai detto: tu non parli delle cose che non hai visto. Il principio dell’autopsia, nella sua accezione primaria, fa riferimento a ciò che si vede con i propri occhi e che quindi si può quindi raccontare. Un fenomeno molto diffuso oggi è quello di raccontare ciò che non si è mai visto, facendo venire meno la credibilità. Se dovessi spiegare ad un ascoltatore come poter capire se quello che un rapper sta raccontando è vero o no, cosa gli consiglieresti? Quanto è importante la credibilità nel testo e quanto è importante che l’ascoltatore la recepisca?
La credibilità la si può cogliere, molto spesso, nei dettagli. Quando Marra, in “20 anni Peso”, ci descrive la situazione di lui che portava la roba a casa dalla mamma, quello è un esempio particolarmente vivido, lui racconta nel dettaglio cose così specifiche che se non hai fatto non puoi saperlo.
Chi invece studia da vicino la cultura americana nota che il rapper, quando è fake, si sgambetta da solo, anche nei testi diversi rapper si contraddicono da soli. Per quanto io sia esagerato, cerco sempre di far capire agli italiani che quando noi riprendiamo lo slang americano lo dobbiamo fare con molta cautela perché spesso, scherzando, diciamo delle frasi per le quali in America rischieresti di prendere le pallottole e questo lo dovremmo saper bene con tutti i grandi artisti che hanno perso e che stanno perdendo la vita adesso, uno degli ultimi esempi è King Von, che apprezzavo anche molto.
Rimanendo in tema, proprio perché gli italiani fanno fatica a decriptare e comprendere il rap, quanto in realtà all’Italia piace il rap?
Capisco cosa vuoi dire e con la massima onestà e rammarico, dico che il rap all’italiano medio resta difficile, seppur sia avanzato anche grazie a quelle realtà come “Make Rap Great Again” e quegli artisti che portano un certo tipo di suono, queste vanno salutate e riconosciute. Ora, anche in America, c’è stato un passo indietro nelle liriche, c’è una semplificazione davvero assurda dei testi: lo stesso Drake, che riesce sempre ad incantarci con le sue hit, ha disossato incredibilmente i suoi brani, questa è un’era in cui si punta molto al minimalismo e per certi versi può avere anche molto senso perché musicalmente il genere sta migliorando. Nel rap di una decina anno fa c’erano più testi, più rime, ma la musica e la sua struttura è molto più figa adesso, compresa la qualità che è cresciuta incredibilmente. Finalmente il rap italiano ora si può pompare in auto, dieci anni fa Guè si poteva permettere di avere un disco che sfondava la macchina, non era per tutti, ma poiché secondo me il rap è ciclico, ritorneranno i testi.
Uscirà a breve un nostro post che parla della saturazione linguistica dell’ascoltatore, basato sulla filosofia della parola. I nuovi emergenti hanno acquistato, a forza di ascolti, una grammatica mentale generativa composta di slang riprodotto in automatico che crea dei testi di senso compiuto ma spogli di significato, sottovalutando la potenza della parola, che in questo genere è ciò che riesce a conferire il quid in più al brano.
Concordo, non diamo il peso alle parole. È giusto guardare l’America ma non bisogna fermarsi all’apparenza di questa, al bling bling, ai privè, ai soldi e alle droghe, perché in realtà, se ti documenti, ti rendi conto che non è proprio così: ci sono rapper che magari hanno girato tutti i club spendendo tutto il cachet, poi non li senti più in giro. Come mai? Perché molti prendono gli anticipi dell’etichetta e li sperperano tutti pensando di avere subito i rinnovi, ma se questi non arrivano causa il calo degli ascolti, questi rapper finiscono la loro carriera… ce ne sono tanti di quelli così. Lì sorge spontanea la domanda: ma quelli che rimangono come fanno? Allora per capire inizio a studiarmi Kendrick Lamar, Drake, o anche i più freschi, come Lil Baby, Lil Yachty invece ha avuto solo 4 mesi di grande esposizione e adesso fatica incredibilmente a fare 10k di vendite nella prima settimana. Bisogna studiare la cultura, vedere cosa hanno fatto i grandi per rimanere senza farsi abbagliare dal rapper che spende e mostra una vita bella e lussuosa. La domanda deve mutare da “cosa ha fatto per arrivare” a “cosa farà per rimanere”.
In America, dischi come “Eternal Atake” e la sua deluxe, non fanno fatica ad andare in classifica anche senza il ritornello, tanto più progetti come questo pubblicati a sorpresa. Studiando invece il tuo personaggio, ho potuto notare che per il lancio del tuo primo disco ufficiale non c’è stata una maxi-operazione di marketing nonostante tu sia in un’etichetta molto importante e grande come la Dogozilla Empire. Come hai gestito la promozione, come hai invece avvertito il passaggio in una squadra importante come questa? Come ti sei sentito?
Per la promozione devo ringraziare la mia manager, mi è stata tanto dietro.
Quando concepisco gli album, non vado a ricercare un’operazione di marketing, ma vado sempre a ricercare qualcosa di artistico da accompagnare, all’inizio infatti per il disco avevo preparato tanti trailer e video ma il mio staff mi ha consigliato “per una volta cerca di portare la tua essenza, evita i mille video da postare, cerca di far parlare la musica”; così è stato ed ho fatto i miei numeri migliori fino ad adesso. Questo percorso mi ha reso felice perché tante persone escono con la major e si ritrovano a fare mille visualizzazioni, io comunque ho avuto la fortuna di riavere indietro tutto quello che avevo dato ai miei supporter. Tutti i tape, le collaborazioni, sono state ripagate, anche la scelta di non strafare nella promo, e per questo ringrazio i ragazzi della Dogozilla e dell’ufficio stampa.
Il disco “Un giorno in meno” ha comunque un’aura sonora davvero forte, suona bene sia con un paio di cuffiette di basso livello quanto con un paio di Beats da studio, è forse qui che si sente la direzione artistica di Don Joe, scoperta leggendo il tuo comunicato stampa. Com’è stato per te lavorare con un colosso che ha plasmato e cambiato il gusto degli ascoltatori rap italiani?
La cosa bella del mio disco, di cui sono fiero è che l’apporto di tutti è stato fondamentale. Don Joe non ha toccato i master o i beat ma mi ha dato consigli artistici che ti potresti aspettare da un Dr. Dre, per dire. Cito l’esempio di “High in Lambrate”, brano che risale al 2018: all’inizio volevo riscriverlo perché mi sembrava datato, quindi l’ho rifatto più aggressivo, Joe invece mi ha fatto riflettere dicendo “tu nella versione di prima racconti una storia, quando hai scritto quel brano volevi narrare, nella seconda versione vai di cattiveria gratuita senza lasciare nulla agli ascoltatori”. Questo è un consiglio che senza di lui forse non sarei stato in grado di percepire. Don Joe mi ha aiutato a capire cosa poteva mancare nella scelta dei pezzi, perché ero partito già con una decina di brani, lui mi ha aiutato a capire quali fossero i più forti, da lì poi ho iniziato a mandargli quelli che levigavano e che davano più anima al disco, impreziositi a loro volta grazie ai ragazzi, citati all’inizio, con cui ho vissuto e fatto musica. Con loro ci conosciamo da un po’, abbiamo vissuto nello stesso posto per settimane: c’era alchimia, un’empatia che Ric deLarge e Dessa One sono riusciti a conferire a me e ai pezzi stessi. Ad esempio scrivere su un rif di chitarra, non mi era mai capitato, ho sempre scritto su beat completi dove fai le tue cose e poi te le ristrutturano. Rappare sulla chitarra mi ha aiutato a migliorare la mia voce perché non potevo più avere il beat che mi agevolasse, dovevo scrivere e creare delle melodie più coinvolgenti possibili perché sul rif di chitarra devi saper far bene, non ci sono le percussioni che ti aiutano a tenere il tempo.
Ringrazio infatti Ric de Large, Dessa One e Mr. Mala di Ferrara: abbiamo fatto un disco che se sparato in macchina fa tremare i finestrini.
Analizzando l’impianto contenutistico del disco, come già anticipato, vengono fuori tante tematiche, spicca molto la critica fatta alle droghe pesanti. Sia chiaro, non che non se ne possa parlare nelle canzoni, a mio parere l’artista deve essere libero di dire ciò che vuole, ma deve saperlo fare in un certo modo perché è necessario informare anche l’ascoltatore. Mi sorge spontaneo quindi chiederti, che rapporto hai con le sostanze?
Io non riesco a concepire le droghe eccitanti come la cocaina perché sono molto agitato di mio, fumo invece perché sono uno che pensa veloce, mi aiuta a rallentare con la mente. Sono molto libertino ora, prima a Padova avevo un pensiero più proibizionista, la noia della provincia porta le persone a perdersi, molti a causa delle droghe non fanno più niente e si bruciano il cervello. In una città come Milano ti rendi conto che ci sono tante persone, non conosci le loro storie e non puoi giudicarle, sta di fatto che io da quegli ambienti ne sto ben lontano, idem le persone di cui mi accerchio. Educherò i miei figli alla conoscenza delle droghe, cercherò di far capire loro di starne alla larga senza però essere un padre duro, magari comprendendo di più la marjuana, senza però farla diventare una scusa per diventare perdigiorno. Preferisco fumare con coscienza, cercando di meditare e dialogare con me stesso.
Va detto ed elogiato che la nuova generazione, nel bel mezzo del progresso, non si sta perdendo troppo, rispetto alla mia, i millenials sono molto più intraprendenti: molti adesso cercano di avvicinarsi al mondo dell’internet inventandosi lavori, capendo già da subito come gira il mondo.
Siamo quasi alla fine. Nel disco tocchi la tematica religiosa, che tipo di rapporti hai con la tua spiritualità?
Ho sempre amato la teologia e la mitologia, perché mi piace capire come veniva concepita la nascita del nostro mondo, il nostro scopo, cosa pensavano le altre popolazioni estere… si trovano tante similitudini tra la nostra e le altre culture. Personalmente sono ateo, ma penso che il mondo sia mosso da dalle energie positive e non. Quest’epoca, anche tramite la scienza, ha meno il paraocchi e si fa frenare meno dalle imposizioni cattoliche, c’è meno paura a ricercare, c’è più razionalità e una ricerca scientifica delle cose.
Chiudiamo riprendendo da dove tutto è iniziato, il nome del tuo disco, “Un Giorno in Meno”. Questo progetto è un giorno in meno verso il successo che ti permetterà di lasciare la tua traccia sulla terra o è un giorno in meno verso la morte, che sia artistica o fisica?
Entrambe le cose. Non voglio essere cinico o pessimista, ma questo disco è stato fatto per tranquillizzare la mia fobia del tempo che scorre, il messaggio è diretto a me e agli ascoltatori, ma a me in primis ma perché i problemi che scrivo nei dischi li scrivo per migliorarmi, perché ho bisogno di auto-monitorarmi e di auto-ammonirmi. Ho cercato di dirmi di essere meno pessimista, di provare ad essere felice, e lo scopo mio è di provare ad essere felice, avere una famiglia e poter portare al mondo una persona migliore che porti a sua volta una persona migliore. Piuttosto che credere che dobbiamo estinguerci per forza, preferisco avere la filosofia di fare del nostro meglio per poter continuare a sopravvivere migliorando la nostra condizione e ciò che ci circonda.
Siamo alla fine. Vorresti dire qualcosa ai lettori di Rapteratura?
Questo è un disco di musica per l’anima, quindi consiglio a tutti di ascoltarlo senza cercare la hit radiofonica o il featuring, questo disco ha il solo scopo di toccarvi e migliorarvi la giornata, se a fine ascolto vi sentirete sollevati o migliori, ce l’avrò fatta. Buon ascolto!
Di Riccardo Bellabarba
Nessun commento!