Il ruolo della cultura hip-hop nella coscienza politica americana
L’ultimo – vero – dibattito tra i candidati alla presidenza della Casa Bianca si è svolto, in un certo senso, nel silenzio, durante le prime ore del 23 ottobre. Il caos del primo confronto politico tra Donald Trump e Joe Biden è stato mutato, in ogni senso, in uno scambio di posizioni scandito da onde sonore dalla nulla frequenza per due minuti ciascuno. Microfoni spenti per i concorrenti, allora e ora, a pochi giorni dal fatidico Election Day. Non si può dire lo stesso per molti artisti statunitensi che, attraverso un mic drop metaforico e poliedrico che unisce testi rap a post esortativi, in questi mesi si sono esposti sulle tematiche principali di quello che potrebbe essere il mandato politico più importante dal secondo dopo guerra.
La personificazione più evidente della cultura hip-hop americana in questa campagna elettorale è stata la candidatura confusa di Kanye West. La corsa persa in partenza alla presidenza degli Stati Uniti del rapper è iniziata con un annuncio su Twitter lo scorso 4 luglio, non a caso data dell’Indipendence Day. La campagna elettorale dell’ex sostenitore di Trump, con il quale condivide l’ossessione del sogno americano, è stata difficile da prendere sul serio: “Yes!” è stato lo slogan, Birthday Party il nome scelto irrazionalmente per il partito. Così, l’autore delle barre “I too dream in color and in rhyme” si è buttato a capofitto in una campagna elettorale ispirata al regno fantasma della Marvel, Wakanda, e dedicata alle tematiche dell’aborto, del commercio internazionale – pur avendo dichiarato di essere totalmente ignorante in fatto di tasse, e, soprattutto, della religione, a tal punto da ricondurre direttamente il proprio mandato al volere divino. Non poteva mancare, per lui, fra le stelle più pagate secondo Forbes, auto-proclamato Michael Jordan delle sneakers al podcast di Joe Rogan e direttore creativo del brand Yeezy, un merchandising mirato: pochi prodotti disponibili sullo store ufficiale online, due cappelli con gli slogan “Vote Kanye” e “2020 Vision”, oltre a due felpe dal “fit perfetto”. Sono state promosse, in nome del rapper candidato, anche delle T-shirt, poi fortemente criticate per la somiglianza evidente con il design di Vision Street Wear; anticipando i commenti social, Kanye West ha re-twittato subito uno scatto di Rihanna con T-shirt del brand per skater, incalzando: “E allora?” Se la miglior difesa è l’attacco, s’intende quello da 280 caratteri.
Come è stato spesso criticato al marketing politico americano, non è sempre chiaro il reale destinatario della strategia e del guadagno del business costruito attorno al merch elettorale. Negli ultimi anni, nel caso di MAGA – indossato più volte dallo stesso rapper di Atlanta – Pussy Hats, Safety Pins e Runners Up, è andata così. Mentre Trump sta provando ad “essere un po’ meno se stesso”, Kanye West è il più bravo a puntare i riflettori sulla costituzione della sua 2020 Vision, ma non è l’unico a sfruttare le dinamiche di desiderio e appartenenza legate al personal brand di un personaggio politico.
La divulgazione mirata di alcune delle tematiche principali della corsa presidenziale democratica viene rappresentata nelle felpe etiche e sostenibili della figlia del candidato Joe Biden, note come Livelihood, o nelle T-shirt anti-razziste della nipote della senatrice Kamala Harris. Anche l’empatia politica della ex First Lady, Michelle Obama, lo scorso agosto ha indossato una collanina d’oro con scritto “VOTE”: l’indomani ogni gioiello anche vagamente simile era esaurito; oggi, l’affluenza democratica al pre-voto è la principale.
“La variabile rap nelle presidenziali USA” ha un senso. Al di là del disturbo borderline di personalità, della presunta cospirazione pubblicitaria e discografica, è un vanity project legato al partito repubblicano per sottrarre voti a Biden in base alle dinamiche di rappresentazione degli elettori di colore, o semplicemente dei fan. West non ha più del 2% di credibilità, ma è un purosangue mediatico che ha messo in crisi, anche solo per poco, ogni scommessa politica per via dei valori che rappresenta da sempre, nel proprio personaggio e, da un punto di vista musicale, nelle proprie rime. Yeezus – il soprannome è ulteriore dimostrazione della sua ossessione ironico-delirante per la religione – è stato un pilastro del rap americano, affermatosi come icona grazie ai primi capolavori, The College Dropout, Late Registration e Graduation e come broker del sound del rap con l’inizialmente tanto odiato 808s & Heartbreak.
Mentre la figura di Kanye West, in particolare, è la personificazione di una coesistenza contraddittoria e disturbata tra alcuni temi identificativi del rap presenti tutt’oggi nelle sue rime e l’affiliazione ad un sistema maschiocratico e capitalista di matrice borghese, l’hip hop contemporaneo aderisce tendenzialmente a questioni democratiche. Ogni espressione artistica è stata, dalla nascita, mezzo di comunicazione controculturale degli scenari più marginali della società, a tal punto da evidenziare il ritorno narrativo e contenutistico di alcuni elementi: la criminalità e le guerre fra gang che hanno segnato l’America degli anni Ottanta e Novanta – la faida tra East e West Coast culminata proprio con l’omicidio di 2Pac e Notorius B.I.G., la povertà di alcune fasce della popolazione, le disuguaglianze etniche e sociali riservate soprattutto alla comunità afroamericana. Poi, l’autocelebrazione per il traguardo raggiunto – che ha determinato, inizialmente, l’ammirazione di rapper come Puff Daddy o lo stesso Kanye West nei confronti di Donald Trump in quanto self-made man miliardario; per la metamorfosi compiuta da loser a ricco, affermato, acclamato black guy.
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Eminem – “White America”
Eminem, invece, ha decostruito tutta un’altra storia della stessa storia. L’operaio di Detroit è stato il primo artista ad abbattere i confini geografici del rap, a tal punto che, oggi, i cultori più fedeli vivono con insofferenza la generalizzazione diffusa attorno alla sua figura nella percezione comune del genere; soprattutto, Eminem è stato il primo rapper bianco a dissacrare i cliché della società americana con rabbia e sarcasmo e a tradurre il disagio inedito dei cittadini bianchi dimenticati dalla politica in liriche taglienti. Grazie a testi come White America, Without Me e We Made You, il circo mediatico e politico statunitense è stato smascherato ironicamente attraverso le rime degli esordi di Slim Shady. Recentemente, l’aura polemica creatasi attorno agli album Revival e Kamikaze ha alimentato la discussione per cui la produzione di Eminem potesse essersi evoluta in espressione dello stesso sistema produttivo tanto odiato. Nel 2020, poi, l’attacco rivendicativo a Trump che ha lasciato tutti senza parole – per vari motivi. Marshall ha rappato a cappella, in mondovisione, per i BET Awards: è stato crudo e spietato come non era da tempo. Si è scagliato contro Trump, che ovviamente a giugno era già in corsa per le presidenziali, e i suoi sostenitori, che poi, sono una parte dei suoi. L’atto politico di Eminem mira sempre dritto all’obiettivo di quegli stessi ragazzi bianchi che ha rappresentato dai primi anni di carriera; i primi giovani sostenitori di Shady sono gli elettori che oggi, con quasi ogni probabilità, si riconoscono nel programma del candidato razzista e conservatore in cui compaiono come parte privilegiata. È chiaro che il rap di Eminem sia approdato ad una fase più matura dal punto di vista della produzione; ma è altrettanto schiacciante che l’evoluzione artistica non ha annullato i valori politici insiti nella scrittura dell’ineguagliabile liricista hip-hop di Detroit.
Nei più immediati giorni nostri, invece, un bravo ragazzo di nome Kendrick Lamar, nato e cresciuto a Compton, sta scrivendo la storia della contestazione politica a partire dall’hip-hop, con la sua narrazione politically correct delle problematiche che interessano la popolazione afro americana negli Stati Uniti. L’efficacia comunicativa dei suoi testi, che oscillano sul filo del rasoio tra introspezione personale e denuncia sociale, ha determinato niente poco di meno che la vittoria del Premio Pulitzer nel 2018; si è trattato del coronamento dell’esposizione politica dell’artista afroamericano, che, soprattutto nel disco To Pimp a Butterfly, aveva fornito una lettura senza precedenti della situazione socio-economica e culturale americana grazie a ciascun brano. Fra tutti, The Blacker Berry, How Much A Dollar Cost.
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Kendrick Lamar, vincitore del premio Pulitzer del 2018
L’approccio politico e narrativo di Kendrick Lamar dà voce a quella che è stata definita la double consciousness americana, anche all’interno della stessa popolazione black. Il Good Kid di Los Angeles divide et impera l’audience grazie a rime dirette che raccontano il trattamento riservato alle minoranze etniche e agli outsider dalla società bianca, ma senza perdere di vista le problematiche che logorano dall’interno realtà criminali come quella in cui è cresciuto. Il ruolo politico di Kendrick Lamar è aumentato in modo esponenziale giorno dopo giorno. Era solo il 2016 quando ha ricevuto l’invito alla Casa Bianca da parte di Barack Obama, mentre negli ultimi mesi Alright è stato inno motivazionale e mea culpa consapevole delle proteste del movimento Black Lives Matter.
Anche i politici americani hanno fatto proprio il meccanismo per cui i temi costitutivi del rap, nato come disciplina hip hop di protesta per eccellenza, hanno inevitabilmente avvicinato gli artisti alla discussione politica e a una distinta parte di elettori. È avvenuta, in più occasioni, una strumentalizzazione dei valori identificativi del genere musicale, finalizzata a guadagnare la fiducia e, di conseguenza, il voto, di determinate fasce della popolazione. Il primo a farlo è stato Bill Clinton nel 1992, nominando il rap in riferimento ai discorsi antirazzisti; ottenne il 70% dei voti degli elettori afroamericani alle primarie. Hillary Clinton ha messo continuamente in atto schemi preconfezionati che hanno portato meme e rumor, più che voti. Ha mostrato di essere vicina alle coppie formate da Jay-Z e Beyoncé, Kanye West e Kim Kardashian, e di essere sostenuta da rapper quali Pusha T e DJ Kahled. Nel 2016, ha diffuso perfino una T-shirt con lo slogan “YAAAS HILLARY”, un chiaro riferimento allo slang del rap. L’autenticità mancata della Clinton è emersa con naturalezza in un’altra coppia democratica, quella formata da Barack e Michelle Obama. È il 2008 quando il futuro primo presidente nero fa un gesto evidentemente ispirato al pezzo di Jay Z Dirt Off Your Shoulder, con il quale, fra l’altro, è realmente legato, insieme alle rispettive consorti. Il rapporto di Obama con la black culture è emerso in occasione di numerosi eventi, come l’invito di Kendrick Lamar e di Lin-Manuel Miranda, o la pubblicazione di una playlist personale con i pezzi di Chance The Rapper e Common.
Donald Trump, come sempre, negli ultimi otto anni, ha fatto di tutto e di più in termini negativi. È il 2016 quando fa il suo ingresso al Saturday Night Live con la parodia di Hotline Bling, ma soprattutto ha sempre utilizzato brani di artisti musicali, anche espressamente oppositori della sua politica razzista; vittime dell’appropriazione musicale sono state Rihanna, Adele, Elton John e soprattutto Neil Young, che è stato il primo a fargli causa per l’uso improprio della propria produzione. Ciascuno dei cantanti violati ha avviato una campagna personale against Trump, che non perde mai l’occasione di associare deliberatamente alcuni brani alla propria inaccettabile visione politica.
A proposito di campagne personali, mai come per la presente corsa alla presidenza statunitense, gli artisti musicali – insieme a quelli del mondo dell’arte, dello spettacolo, della moda – hanno dichiarato pubblicamente o tramite i social la propria opinione politica e incentivato i fan a votare per mandare Trump a casa. Cardi B ha specificato, in diretta su Zoom con Joe Biden per la rivista americana Elle, proprio che l’obiettivo primario deve essere “sbattere fuori Trump dalla Casa Bianca”. La rapper non ha mai fatto mistero della sua totale contrarietà alla politica del presidente in carica, a tal punto da ricevere pesanti molestie dagli attivisti e sostenitori repubblicani; vicenda che ha conseguentemente raccontato in un post.
Cardi B usa i social per incoraggiare i fan a votare contro di lui e per battersi in favore delle minoranze, di un nuovo potere femminile e contro le violenze della polizia. In segno di protesta per quella che ha definito “la mossa più stupida di sempre” rispetto alla situazione iraniana, la rapper ha preso la cittadinanza nigeriana e fatto scegliere, tramite un sondaggio su Twitter, il suo nuovo nome. Lo stesso singolo WAP, rilasciato ad agosto con Megan Thee Stallion, è una metafora volgare, ma onesta e provocatoria, con cui rivendica una nuova considerazione femminile americana. Non sono mancate le critiche da parte dei repubblicani e, per tutta risposta, Cardi ha postato un nudo dei tempi in cui Melania Trump lavorava come modella. “Perché, lei non vendeva la WAP?”
Al di là della partita politica giocatasi nel rap game statunitense, le posizioni di molti altri artisti come Billie Eilish hanno avuto un impatto fortissimo in questi mesi. In occasione della sua esibizione con il brano No Future alla convention del partito democratico ha attaccato Trump sulla questione Covid, su quella del razzismo e soprattutto del cambiamento climatico, discorso politico nel quale è sempre stata molto coinvolta. Ha pregato gli ascoltatori di votare per Biden in nome del futuro del mondo.
Fra le popstar più esposte ci sono anche Madonna, Lady Gaga, Ariana Grande – che ha rilasciato a pochissimi giorni dall’Election Day il videoclip di Positions dove interpreta la padrona della Casa Bianca tra un riferimento e l’altro al presidente in carica e alla First Lady – e la lista delle celebrity anti-Trump, per fortuna, è ancora molto lunga.
Difficilmente le dichiarazioni politiche di un artista potrebbero cambiare i risultati delle elezioni presidenziali: le sorti del voto dipendono da più complessi e definitivi processi socio-culturali. È importante, però capire la portata dell’influenza di chi, come i rapper, ha l’opportunità di veicolare messaggi sociali direttamente riconducibili ad un orientamento politico preciso; e di chi, al contrario, potrebbe persuadere gli elettori strumentalizzando una componente fondamentale della cultura americana come l’hip hop. Agli elettori americani e agli spettatori del resto del mondo non resta che scegliere a chi accendere il microfono per i prossimi quattro anni.
Di Maddalena Tancorre
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