Mahmood ne ha fatta di strada da quella vittoria a Sanremo nel 2019, ma forse neanche troppa. Uscito da vincitore inaspettato, con un brano inusuale per gli standard, avrebbe potuto percorrere numerose vie successivamente, la maggior parte delle quali tese nella direzione del pop italiano nell’accezione più piatta e radiofonicamente mediocre possibile. Un Pop che non meritava Mahmood, un Mahmood che non meritava quel Pop.
A due anni dalla vittoria di Sanremo e da “Gioventù Bruciata”, “Ghettolimpo”, il secondo album ufficiale di Mahmood, è finalmente arrivato. Prendendo per buona l’asserzione di Caparezza ma anche di tanti altri artisti quando si trovano a doversi esprimere sull’argomento, il secondo album è decisamente il più difficile da realizzare: dopo il trionfo al Festival e i singoli di successo che ne sono seguiti, le aspettative erano elevate, con tutte le attese che ne conseguono, come giusto che sia e cosa a cui ogni artista di livello dovrebbe ambire. Ma l’asticella è stata posta nel punto giusto? Decisamente sì. Mahmood ha saputo creare aspettative e le ha sapute gestire, centellinando le uscite necessarie per far conoscere la sua identità artistica al grande pubblico. Scegliere di flirtare con il rap, pubblicando prima “Calipso”, poi “Moonlight Popolare” con Massimo Pericolo e “Dorado” con Sfera Ebbasta e Feid; strizzare l’occhio alle radio più mainstram con brani come “Soldi” e “Rapide”: dalla vittoria Sanremese Mhamood ha recitato la parte funambolo tra Pop e Hip-Hop, in un ibrido artistico difficile da definire.
La vicinanza con il rap, o comunque con le sonorità urban, quindi, sono l’elemento fondamentale su cui poggia il progetto – Mahmood, che è riuscito a rendersi credibile nonostante il generale stigma che puntualmente si abbatte sui prodotti musicali della TV italiana. Mahmood è stato più forte di altri in questo, incentrando il suo percorso e il suo ultimo album su un dualismo che vede contrapposti, ma anche ben incastrati, vibes e mood che si rispecchiano anche nel titolo. “Ghettolimpo” di Mahmood è figlio di questa dicotomia: c’è il bene e il male, ci sono le sofferenze del passato e le agiatezze del successo, c’è un sound hard e uno soft, inferno e paradiso, il ghetto grazie al quale è arrivato nell’Olimpo ma anche l’ambizione di arrivare nell’Olimpo senza cui non avrebbe valorizzato il Ghetto. C’è tanto spazio per la fantasia e per le interpretazioni grazie alla miriade di influenze e citazioni, più o meno esplicite, presenti nel disco. Infatti, il dualismo precedente si arricchisce dei continui rimandi alla cultura MTV, al mondo degli anime e dei manga, dei suoni e linguaggi della cultura araba, a cui, a questo si giro, si affiancano i riferimenti alla mitologia della Grecia Antica. La dimensione italiana è solo la punta dell’Iceberg di un artista che affonda le sue radici in più cultura, dall’Asia all’America, passando per il nord Africa.
Un progetto così policentrico si rispecchia anche nei featuring. Mahmood ospita nell’LP quattro colleghi che sembrano equamente coabitare il Ghetto e l’Olimpo. Se già avevamo conosciuto Dorado e tutta la sua zarra ostentazione da Ghetto, a farci toccare le vette olimpiche ci pensano Elisa e Woodkid, che in Rubini e in Karma, ci regalano due performance tanto intime quanto delicate.
La verità è che Mahmood con Ghettolimpo una strada precisa non l’ha presa. Anzi, ci ha preso gusto a fare l’equilibrista, e va benissimo così, in bilico tra l’urban e il pop, tra il Ghetto e l’Olimpo. Molti si aspetteranno che cada da una parte o dall’altra. Mahmood non ha intenzione di perdere l’equilibrio, quanto, piuttosto di fare di questa ambiguità il suo punto di forza. E GhettOlimpo rappresenta la piena riuscita di questi propositi.
Di Francesco Palumbo e Simone Locusta
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