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“L’Ultimo a Morire” di Speranza è la bombola d’ossigeno di cui il rap italiano nel 2020, da un po’ in terapia, seppur con qualche segno di ripresa, necessitava.
Il disco d’esordio di Ugo Scicolone, in arte Speranza, è un prodotto crudo, spietato, feroce che sprizza con veemenza e veracità tutta l’originalità che l’artista italo-francese riesce a convogliare su sé.
In un panorama artistico-musicale ancora brullo, in cui molte nuove proposte sembrano essere ancora una volta dei prodotti “copia-incolla”, “L’Ultimo a Morire” di Speranza è un germoglio che fungerà da spia segnalatrice e rivelatrice dei gusti italiani: se il disco riuscirà a sbocciare nelle classifiche, dimostrerà che forse, agli italiani, il rap fatto a modo ancora piace.
Facile è incasellarlo artisticamente come rapper, perché se ne dica, pochi più di lui ora possono vantare di essere definiti rapper, difficile è invece delinearlo in quanto personaggio: Speranza, osservando i capelli, verrebbe tranquillamente etichettato come un “cuozzo” (“tamarro” in Campania ma con un’implicita accezione ironica fintamente elegante principalmente connesso all’estetica curata) con un attitudine da “grezzo” che indossa firme secondarie (“Legea”, “Givova” ecc…), che invece di passare le serate in locali di lusso, preferisce fumare una stecca di sigarette e stappare innumerevoli Peroni da 66 in compagnia dei suoi amici di bevute, comodamente svaccato su sedie e tavolini di plastica.
Professionalmente non si può nemmeno definire solamente rapper, perché oltre alla musica, come aveva ben spiegato su La 7, a “Le invasioni barbariche” con Daria Bignardi, fa ancora il muratore, perché a 34 anni, l’età in cui ha partorito il suo disco d’esordio, se non spacchi subito con la musica, non hai ancora una vita davanti per poterti reinventare e costruire prospettive lavorative rosee.
Nemmeno dal punto di vista linguistico la definizione potrebbe essere univoca, no, perché Ugo, nato a Caserta da padre casertano e madre francese, a causa della separazione dei suoi, si trasferisce con la madre in Francia, a Behren-lès-Forbach, dove crescerà. Behren-lès-Forbach è un ex centro carbonifero al confine con la Germania e, in un contesto di multiculturalità transalpina, avviene la magnificenza dell’incontro scambievole etnico; a 12 anni un italiano inizia a rappare in francese insieme ai suoi amici (francesi, turchi, algerini, marocchini ecc…), lì l’italiano e il casertano si mischiano al francese, lo slang algerino e arabo entrano a far parte del suo parlato (sono presenti infatti parole arabe nei suoi testi quali “harraga”, il gesto di bruciare e strappare i documenti, “Salam 3alaikom” e molte altre) dando così vita ad una ricchezza linguistica elevabile alla terza.
Tornato a Caserta a 22 anni, si mette a fare il muratore, riprende timidamente, sotto il nome di Ugo de la Napoli, a fare musica napoletana con influenze gitane, poiché, come lui stesso ha detto, bazzicava spesso nei quartieri rom della zona, ma senza troppo successo. Grazie a Barracano, suo grande amico, ritrova nel 2016 la voglia di tornare a fare rap e sommando questi tessuti vitali, la sete di rivalsa e le ferite custodite dall’amore viscerale per la musica, esplodono dalla sua penna metriche da capogiro rinforzate da un linguaggio elevato alla terza potenza, agevolate da un flow urlato e una veracità sulla traccia senza eguali.
Come ben si può evincere da questi excursus, Speranza non è facilmente definibile perché è quel personaggio che vive nelle zone liminali, tra storie di illegalità ( di armi, di spaccio, di lavoro a nero e non) raccontate in vesti legali (quelle da rapper-muratore), tra il look da “cuozzo-grezzo” e l’essere perfettamente multi-linguistico.
Una persona così autentica con una maturità empirica di un trentaquattrenne, tranquillamente paragonabile per molti aspetti ad un ragazzo di vita pasoliniano un po’ cresciutello, in 20 anni e più di storie immagazzinate ed interiorizzate, non poteva che esondare illimitatamente in un album d’esordio così dirompente come “L’Ultimo a Morire” di Speranza.
L’Ulitmo A Morire di Speranza del disco gioca proprio sul nome d’arte d’Ugo, acquisito dal comune detto popolare “la speranza è l’ultima a morire”, e come la qualità del mito rimasta nel fondo dello scrigno di Pandora, Speranza si presenta e si autodefinisce come un duro che ha dovuto combattere nelle sue fangose trincee conquistando le sue personali vittorie e speranzoso di sfondare definitivamente con la musica.
Il disco, di 14 tracce (per un complessivo di 39 minuti), con tutti i titoli esclusivamente in caps lock quasi ad evidenziare anche dallo scritto l’urlo di Speranza, contiene 5 featuring azzeccati, mai fuori luogo e di altissimo calibro (Tedua, Gué Pequeno, Massimo Pericolo, Rocco Gitano e Kofs) che l’artista stesso ritiene attestati di stima e valori aggiunti finalizzati ad esaltare l’intero composto.
Musicalmente parlando, la monotonia è praticamente assente: si parte con suoni freddi, tipicamente di periferia, da ghetto, ricordanti le sonorità del rap d’Oltralpe, per proseguire mano a mano in una lenta ma progressiva sfumatura EDM, con contaminazioni della club music, della techno, della dance, del pop, fino ad assorbire le chitarre popolari italiane, napoletane, i violoncelli, i sonagli rom e culminando alla fine, con una roboante esibizione di Frank Corazza, nella Russian hardbass.
Più che sul livello tecnico altissimo delle strofe, non sempre commentabili vista la mia sprovvista competenza linguistica francese, e i ritornelli, in alcuni brani leggermente sottotono (forse l’unica piccola sbavatura dell’album), è bene concentrarsi, ancora una volta, sul grandissimo fiume di linfa vitale trascorsa sul filo dei limiti che scorre dentro il letto musicale questo disco. Afferrare le esperienze, le emozioni, le sensazioni che il rapper casertano racconta non è sempre semplice; il passaggio in FENDT CARAVAN “succo di frutta, zucchero e mollica/ ti trasformo la cella in un bar” fa riferimento ad un particolare modo di far fermentare e distillare l’alcol in carcere in ovvia mancanza di tutta l’attrezzatura professionale, in “SPALL A SOTT 4” “C’o bicarbonato addeventammo cuoche” fa allusione all’utilizzo del bicarbonato per ripulire la cocaina dalle sostanze di taglio, oppure in un singolo extra-album “Givova” “Trasimmo ‘int”a galera c”a tuta d”a Legea /D”a Zeus o d”a Givova/ Scarpe slacciate ô pede/ New Balance o Diadora” allude al fatto che in carcere, i lacci delle scarpe vengono tolti per evitare strangolamenti o impiccagioni. Questi tre esempi testuali, dalle tinte grottesche e selvagge, dimostrano quanto l’artista si nutra della contingenza, dalle esperienze pauperistiche provenienti dalla strada di quartiere e dello spazio liminale di cui parlavamo sopra. Seppur le sue siano siano delle esperienze non comuni a tutti gli ascoltatori sprovvisti di un vissuto o di un background hip hop, esse, oltre ad arricchire e ad informare indirettamente l’ascoltatore, stilizzano le scene casertane, prive di rappresentanti, e le dotano di colori vividi dalle tinte scure e sporche utili a far formare un quadro ideale a chi riceve il messaggio. Allo stesso tempo, l’autore delle barre sporche, disprezzanti e grondanti d’asfalto come in “PUTTANA***” , è anche l’autore versatile, romantico ma rancoroso della traccia, “IRIS“, ordinate una vicino all’altra quasi a sottolineare la bidimensionalità della sofferenza sentimentale, emotiva e carnale, concreta che l’autore fa rientrare nel suo prodotto. Menzione d’onore va fatta a “CAMMINANTE”, con Rocco Gitano, emblema del riconoscimento dell’investitura fatta a Speranza da parte di Caserta, del quartiere rom e della vecchia canzone Napoletana, quasi a testimoniare il forte messaggio di ricchezza multiculturale che il rapper indirettamente porta.
Critiche legittime possono essere mosse all’urlo continuo che si snoda per tutto l’album, al fatto che un altro disco su questo stampo, intensamente urlato, potrebbe sembrare monotono e difficile da digerire, ma ciò che sicuramente si può dire è che questo prodotto va assorbito per quello che è: un violento sbattere i pugni sul tavolo per reclamare ciò che Speranza sente suo.
Il tempo ci saprà dire se Speranza sarà in grado o no di reinventarsi, ma ora non ci resta che goderci questo disco carico di hip hop, di attitudine, di ricchezza linguistica, di tecnica, di autenticità, che da anni non si vedevano nel panorama rap nostrano. Finalmente la credibilità trova un degno portatore del suo stendardo: Speranza, dalla strada, per la strada.
Di Riccardo Bellabarba
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