I coriandoli sparati nella premiazione durante la sera della finale sono stati tolti dal teatro, i conduttori si sono spostati pian piano dalla luce dei riflettori e sono tornati alla vita di tutti i giorni, ma le voci del dopo festival continuano a girare incessantemente. Sanremo è finito, ma questa ultima edizione ha fatto parlare e farà parlare di sé per un altro po’. Il famigerato evento ligure una volta poteva essere definito il festival della canzone italiana, ma da qualche decennio a questa parte, si è trasformato in una vetrina per cantanti caduti nel dimenticatoio alternati a nuovi volti che fremono al solo pensiero di doversi esibire sul palco dell’Ariston davanti a tutta Italia per poter accrescere la propria visibilità e attestare la propria esistenza artistica al di fuori del web. Se qualcuno mi chiedesse oggi cos’è Sanremo risponderei seccamente “una vetrina”. Il vetro utilizzato per le bacheche è sì trasparente, ma se guardato da una diversa angolazione, può riflettere anche delle immagini non troppo lontane; l’immagine che quest’anno riflette il vetro è più vicina che mai ai gusti musicali degli italiani.
Mai come quest’anno il podio di Sanremo ha palesato i reali gusti musicali degli italiani seppur ci siano state polemiche sulla classifica finale. Negli anni precedenti, le vittorie al festival davano la bislacca idea che gli italiani, in radio, o dalle loro cuffiette, ascoltassero quasi solo cantanti neo-melodici che urlavano all’Italia intera il loro concetto trito e ritrito d’amore. Quest’anno Baglioni è stato in grado di selezionare abilmente i concorrenti, scongelando dal freezer i cantanti più stagionati per un pubblico “old”, portando i cantautori pop che ogni anno si ricavano il loro spazio nelle classifiche musicali e le nuove meteore.
Dalle meteore però quest’anno sono scesi, come degli alieni appena atterrati su Marte, i rappers e hanno invaso in massa il palco dell’Ariston. Claudio Baglioni è stato il primo direttore artistico del festival che si è degnato di dare uno sguardo alle classifiche di Spotify e si è reso conto che il rap ormai domina talmente tanto la scena musicale tricolore che non ha potuto fare a meno di escluderlo dalla sua sessantanovesima edizione del festival della canzone italiana. Attenzione, il rap arrivato a Sanremo non è un rap puro, fatta eccezione per Rancore (e Guè nella serata dei duetti), ma un rap catturato nei selvaggi meandri d’Italia, sedato, ammansito e portato sul palco. La realtà dei fatti è che a Sanremo, il rap nella sua forma più pura non arriverà mai, se non quando la generazione degli anni ‘90 avrà ormai una certa età e prenderà in mano le redini del festival, ma ad essere schietti, tale genere non giungerà mai sul maestoso palco della città ligure perché il rap non necessita di Sanremo per vendere dischi e per avere certificazioni, è Sanremo che ha bisogno del rap per rifilare dischi e ricevere certificazioni, dal momento che la pop music italiana non compare più in cima alle classifiche. Per questo motivo tra i concorrenti sono spuntati fuori nomi del calibro di Rancore (in duetto con Daniele Silvestri), i BoomDaBash (ultimamente più tendenti al pop), Shade (in duetto con Federica Carta), Ghemon e dulcis in fundo Achille Lauro, il concorrente più chiacchierato di tutta la sessantanovesima edizione del festival.
Perché Sanremo 2019 ha iniziato a cambiare le coordinate musicali
Lauro ha travalicato qualsiasi tipo di limite, non solo in qualità di rappers non portando un brano rap, ma tentando per di più di portare un pezzo rock, inno alla vita spericolata, contestatissimo soprattutto dalle emittenti Mediaset, in particolare da Striscia la Notizia, che ha creato un’invettiva alquanto ridicola pronta a schernire il rapper romano sostenendo, con delle basi fatiscenti, che il brano “Rolls Royce” sia una sollecitazione ad assumere ecstasy. Il programma di Antonio Ricci, che si erige a smascheratore di truffe e rivelatore di verità nascoste se ne sbatte dell’informazione; la realtà dei fatti è che Achille Lauro è stato un semplice pretesto per poter cercare, in modo beffardo e sleale, di togliere ascoltatori alla Rai puntando sul frivolo gossip e attaccando l’immagine del rapper giacché la sua estetica e il suo stile si prestano alle critiche moraliste e bigotte di una generazione ormai over 40 che per sentirsi ottimi dispensatori di giustizia attaccano un artista idolo delle nuove generazioni al fine di sostenere la loro irreprensibilità e i loro costumi morali integri.
Achille Lauro ha avuto lo stesso ruolo che ha ricoperto Simone Cristicchi nel 2010 portando “Menomale che c’è Carla Bruni”, Elio e le Storie Tese con “La Canzone Mononota” nel 2013. I due artisti sopracitati sono stati gli outsiders di quelle edizioni che non puntavano alla vittoria, ma che salirono sul palco dell’Ariston per portare qualcosa che rompesse criticamente la monotonia del festival delle solite canzoni perbeniste : Achille Lauro ha portato a Sanremo l’attitudine hip hop di voler puntare ad un successo pari a quello di una rockstar, glorificando la vita spericolata (la stessa vita che cantava Vasco Rossi nel 1983 proprio sull’Ariston) a cui tutti i cantanti che partecipano al festival, in un modo o in un altro, aspirano. Togliendo i gusti personali e i giudizi saccenti di persone che si ritengono più competenti di giudici specializzati in musica, la sorpresa più o meno rap che invece è stata più accettata è digerita, seppur in parte, è stata quella dell’artista vincente: Mahmood.
La vittoria del festival di Mahmood è stata accolta molto positivamente da alcuni, in maniera altrettanto negativa da altri che hanno gridato al complotto e al festival falsato perché i due artisti sul podio (ndr. Ultimo e Il Volo) avevano ricevuto più voti. Tale discussione non fa altro che dimostrare l’alto grado di analfabetismo funzionale che affligge lo Stivale poiché nelle regole c’è scritto che il televoto pesa soltanto un 35-40% sulla decisione finale e che per vincere la competizione bisogna soddisfare i giudici. Mahmood con il brano “Soldi” racconta quanto il denaro, argomento focale oggigiorno, possa cambiare i rapporti all’interno di una famiglia fino a distruggerla. Mahmood è considerabile una sorpresa parziale del mondo rap perché fluttua nelle orbite più periferiche dell’universo hip hop (ha dichiarato lui stesso di fare urban pop) ma siccome ha usufruito di una base del produttore Charlie Charles (produttore di Sfera Ebbasta) ed è stato precedentemente chiamato nelle collaborazioni a dei brani di Fabri Fibra (“Luna”) e di Gué Pequeno (nel pezzo “Doppio Whiskey” e sul palco con lui nella sera dei duetti), ci permettiamo di definirlo (passateci il paragone) un “Sam Smith che rappa”. Mahmood con un testo non troppo fuori dalle righe, un ritmo orecchiabile e canticchiabile ha saputo convincere a pieno la giuria dell’Ariston e rappresenterà il Paese all’Eurovision con una canzone italiana che ha un tocco d’internazionalità visto il timbro vocale e le origini italo egiziane del cantante.
Non sono mancate le solite critiche agghiaccianti e razziste sulla sua provenienza, infatti è curiosa la vittoria di Mahmood visti i partiti nazionalpopulisti al governo italiano, ma ciò non fa che dimostrare ancor di più quanto il rap, anche nella sua maniera più edulcorata e ammansita possibile, lasci comunque il segno e crei scompiglio. Claudio Baglioni ha saputo modernizzare il festival servendosi di un rap leggero che gli italiani vogliono ma che, a quanto pare, non sanno ancora accettare del tutto.
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