Recensione di 1969
“No, non è musica, è un Mirò”.
Juan Mirò I Ferrà è un esponente del “surrealismo”.
Il surrealismo è una corrente artistica d’avanguardia del millenovecento che cerca di rappresentare una realtà superiore residente nella parte più profonda della mente. Achille Lauro, tramite la sua nuova concezione di musica, in “1969”, tenta di dar vita ai suoi pensieri più reconditi irrazionalmente, rappresentando la sua realtà soggettiva a tratti distorta.
Lauro ora scorge di sfuggita il mondo come in un viaggio spericolato in una metropoli a bordo di una Cadillac decappottata; insegne di locali, marche di vestiti, icone di bellezza, icone musicali viste frettolosamente causa la velocità troppo elevata.
Analizzando la carriera del giovane artista romano classe ’90 ci si accorge che è riuscito a partire in prima e ad arrivare alla sesta marcia in men che non si dica. Nel 2013 pubblica il suo primo progetto “Barabba Mixtape”, nel 2014 Marracash lo nota e lo mette sotto contratto, pubblicando “Achille Idol- Immortale”, nel 2015 l’album “Dio c’è” segna il rap undeground italiano, nel 2016 si rende autonomo, fonda la sua casa discografica “No Face Agency” e pubblica “Ragazzi Madre” (uno dei pochi dischi degni dell’etichetta trap), nel 2018 esce con “Pour L’Amour” e nel 2019 lo troviamo a calcare il palco dell’Ariston, al festival di Sanremo, in eurovisione con il singolo “Rolls Royce”.
David Bowie in “Fame” cantava “fame, what you like is in the limo” (ndr. “fama, quello che ti piace è nella limousine”), rapportando il concetto di lusso ad un modello preciso di automobile (la Cadillac per Elvis Presley).
Ciò che fa da cardine in 1969 non è la parola in quanto tale, ma il concetto che ruota intorno alla singola parola.
”1969” si apre con il brano portato al festival musicale ligure, “Rolls Royce”, che al contrario di quanto affermava il tonno di Staffelli e i pecoroni che lo hanno sostenuto, parla davvero della famosa macchina inglese. La traccia si colloca perfettamente all’inizio perché, dopo aver descritto nelle prime due brevi strofe, tramite delle icone, il suo concetto di successo e di rockstar, nell’ultima parte si abbandona (citando “Dio Ricordati” e “Barabba II) ad una preghiera rivolta ad una donna e a Dio.
Paragona la donna ad un diavolo che torna a dare fuoco al suo cuore e chiede a Dio di segnare il suo nome e quello dei suoi compagni, perché non è detto, visti tutti gli esempi delle rockstar citata (tutte defunte), che la fine sarà così piacevole.
In “C’est la vie”, su dei violini soffusi molto simili a quelli francesi di Edith Piaf, accompagnati da un rullante che batte a ritmo con il cuore, riprende la preghiera fatta alla sua madama; tenta di immortalare uno stato d’animo e descrive molto cinicamente l’amore come dare la possibilità a qualcuno di ucciderti sperando che non lo faccia.
“Cadillac” è la versione più spietata e consumistica di “Rolls Royce”, è un vero e proprio elogio all’automobile di lusso, costosa, ben accessoriata, trattata quasi come un animale selvaggio domato.
Dopo la glorificazione al suo bolide, si congeda dalla musa ispiratrice (“Je T’aime” feat. Coez), iniziando a calarsi in una dimensione onirica, dicendole “adieu mio amor, merci, je t’aime” dando questa volta, una maggiore caratterizzazione malinconica al successo, sperando in una vita da museo, come qualcosa di cui godranno gli altri una volta passato a miglior vita.
“Zucchero”, soprattutto nel ritornello, richiamando i toni di un epigramma, si adagia su una melodia compiuta da un arpeggio di chitarra in chiaroscuro che dona tinte oniriche alla traccia.
In questo caso l’argomento trattato è realmente la cocaina, descritta non ipocritamente come una cosa cattiva, anzi, ma come un dolce “zucchero” lì per lì, con effetti devastanti e deleteri immediatamente dopo. Una polvere caduta dalle ali di un angelo, che dopo averti causato crisi di nervi e crisi di affetto con le persone più care, ti porta all’inferno.
La title track “1969” è dedicata alla madre, ma non è una serenata sdolcinata, è un brano scanzonato comparabile (con le dovute differenze) ad alcuni brani di Rino Gaetano o a “Fatti mandare dalla mamma” di Gianni Morandi. Achille si sente come il primo uomo sulla Luna, che guarda il mondo dal basso perché ora è arrivato al successo, ma torna in sé e scende sul globo per portare la madre a fare compere, acquistandole vestiti costosi e la casa che le avevano pignorato quando non avevano i soldi per permettersela. In maniera molto diretta descrive dei simpatici quadretti con la madre richiamando le tipiche situazioni che i figli vivono quando si allontanano da casa e tornano nel proprio nido per una breve visita.
“Roma” tratteggia tristemente il volto oscuro della Capitale in cui è cresciuto, in cui inscena la tragedia, simile alla dolorosa passione di Cristo, che vivono quotidianamente i ragazzini cresciuti in strada, definiti figli di una “sciacalla, di una iena, di una cagna”, non di una lupa. Simon P, il featuring presente nel brano, grande amico di Lauro appartenente al Quarto Blocco, testimonia e conferisce ancor più credibilità alle esperienze narrate da Lauro.
“Sexy Ugly” è un’espressione appartenente all’immaginario urban che delinea una persona non convenzionalmente di bell’aspetto ma con una grande personalità, uno stile ed un talento accattivante. Seppur la non bellezza, tutte queste caratteristiche concorrono a renderlo attraente. Tramite delle bellissime analogie ricche di citazioni, Lauro cerca di dipingere sulla sua tela (il beat) un suo autoritratto impressionista fatto a schizzi. In “Delinquente”, oltre ad omaggiare uno dei suoi artisti rock italiani più amati (Vasco Rossi), dona maggiori sembianze caratteristiche al suo autoritratto iniziato nella traccia precedente, facendo culminare tutto nell’espressione quasi idiomatica “figlio di un dio, figlio di un bar/ non mi far litigare”.
La canzone conclusiva “Scusa” è un biglietto di scuse, costruito a mo’ di poesia, per la madre, per una ragazza (forse la ragazza citata in tutto 1969 è la personificazione del sentimento stesso dell’amore) e per Roma. Dopo aver subito una pioggia di critiche, dopo aver perso il senno e la ragione, si scusa con le figure appena nominate, come a far immaginare di aver arrecato loro del dolore con una brusca frenata nella sua sfrenata corsa.
“1969” non si può facilmente etichettare con un singolo genere musicale, ma ciò che sorprende è l’ulteriore evoluzione del rap, che (come in “Pour l’amour”), non scompare, ma resta in sottofondo; i bpm tipici del rap si fondono magistralmente a suoni punk rock e pop rock, realizzando una nuova folle varietà di cui il proprietario risponde solo ed esclusivamente al nome di Achille Lauro.
L’ascoltatore impaurito potrà pensare che quelli di Achille non sono testi, bensì elenchi o “liste della spesa”, ma se si fa un salto a ritroso nella discografia del giovane artista romano, si nota chiaramente come dai primi lavori Lauro abbia sempre più portato all’esasperazione il suo linguaggio.
Nei primi progetti Achille rappava direttamente senza tralasciare nulla, in “Ragazzi Madre” sottintendeva e comunicava ai “pochi” conoscitori dell’universo hip hop, da “Pour l’amour” Lauro allude, strizza l’occhio e dipinge con le parole dei quadri che devono essere ricostruiti, tramite la fantasia, dall’ascoltatore. Come se le troppe parole costituissero una barriera per il pensiero.
Una volta che la musica di Achille viene registrata in un disco, diventa il fruitore l’artista stesso, che tramite un canovaccio, riesce a ricostruire l’intera intelaiatura dell’avventura vagamente e allusivamente tratteggiata dall’artista. Non è mero citazionismo fine a sé stesso, non sono semplici accumulazioni, sono esemplificazioni dei concetti che Lauro ha nel suo subconscio. Ogni parola posta sulla base suona diversamente, diventa uno strumento evocatore di un’idea. In “1969” i pensieri e i concetti surreali di Lauro si incanalano e vengono espulsi trasformati in opere dadaiste che rifiutano la razionalità, che enfatizzano la stravaganza e che ricercano la libertà.
L’amore che ha sempre nutrito per le figure appartenenti al mondo rock degli anni 60-70 si appropria delle icone storiche e le utilizza per spiegare una sua rappresentazione mentale.
Seppur
la grande attitudine da rockstar, non si paragona ai miti citati, anzi, da loro
prende ispirazione, perché per diventare uno dei più grandi, bisogna prendere
spunto dai più grandi.
Achille è il rapper che si è rinchiuso nel bozzolo e che ne è uscito trasformato e rigenerato; la sua attitudine da musicista ora gli permette di trasformare la sua produzione in musica vera e propria, e come una rockstar che si rispetti, è capace di scatenare intorno a sé un’indignazione dilagante.
Di Riccardo Bellabarba
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