No, cari ‘Boomers’, la trap non rappresenta affatto l’antitesi del punk rock
È divertente, in fondo. Immaginare che un mondo unito da 7 note musicali sia possibile, intendo dire. Perché, vedete, sono fermamente convinto che per gli uomini la musica possa consistere in un’interessante opportunità, volta a comprendere la complessità della vita e, forse, a svelarne i suoi più intimi segreti. L’ho imparato grazie alle parole di un immenso maestro come Daniel Barenboim (famoso pianista e direttore d’orchestra argentino-israeliano), il quale ha orgogliosamente speso una vita intera al servizio della musica e del suo studio, credendo in un unico grande ideale: la musica, appunto. Sì, perché parlare di essa, dopotutto, significa proprio questo. Parlare di musica significa cercare di avvicinare quante più persone siano possibili ad essa, senza pregiudizi, senza erigere barriere di qualunque genere, quasi come se si trattasse di una missione. Con queste premesse, dunque, potrete benissimo immaginare quanto sia stato frustrante per me scoprire che chi mi ha preceduto, ahimè, sia spesso stato allievo formato da tutt’altra scuola di pensiero. Ed è divertente, in fondo.
Qualche giorno fa, infatti, mi sono ritrovato a “parlare” – se così si può dire – di musica con un simpatico giornalista di una trentina d’anni più grande del sottoscritto e la questione non poteva che andare a finire su un genere come l’Hip Hop, evidentemente mal sopportato dallo stesso, il quale avrebbe definito rap e trap – raggruppati all’interno di un unico grande sacchetto per l’immondizia – come “l’inizio della rovina della musica moderna”. A quel punto gli ho prontamente ricordato che, dopotutto, ai suoi tempi – come al solito più floridi e convincenti dei nostri – anche il punk rock era più o meno descritto con gli stessi termini – salvo poi trasformarsi in una delle avanguardie artistico-musicali più influenti della storia – e la risposta a questa considerazione ha fatto in modo che uno scritto come quello che state leggendo vedesse la luce. La sua risposta, infatti, è stata: “Ti sbagli. Il punk era anti-sistema, la trap, invece, è il sistema”.
Ebbene, tralasciando il fatto che il simpatico collega non abbia nemmeno ascoltato 5 dischi appena riconducibili al genere di cui straparla, mi incuriosisce che un tale uomo – presunto amante della musica quale dovrebbe essere – sia capace di proporre una visione tanto chiusa ed asfissiante, che dopotutto caratterizza questo “morto vivente” che è il nostrano giornalismo musicale su carta, tenuto in vita da un continuo riciclo di aneddoti riguardo i soliti quattro grandi nomi del passato, che il caso vuol perennemente far coincidere con il sempreverde ed intoccabile mondo del rock.
Ma tornando alle (inesatte) considerazioni del simpatico collega sulla trap e il punk, mi piacerebbe rispondere a queste con delle altrettanto simpatiche domande di carattere retorico.
La prima: può la musica punk rock – e non la sua cultura che, ahimè, è ben altra cosa – fregiarsi del titolo di “anti-sistema”, nonostante quel capolavoro comunicativo-commerciale prima ancora che musicale – operato dalla brillante mente di Malcolm McLaren – oggi conosciuto come Sex Pistols? E in seconda istanza, può la trap considerarsi parte del cosiddetto “sistema”, nonostante le sue origini parlino di “trap house” – ovvero di case adibite alla produzione di sostanze stupefacenti destinate allo spaccio – e, quindi, di luoghi che rappresenterebbero una decisa alternativa allo Stato e, quindi, (di nuovo) al cosiddetto “sistema”? E ancora, possono band come Green Day, Blink-182, The Offspring ma anche Ramones definirsi “anti-sistema”? Come si è detto, è la cultura punk a potersi considerare tale e quella, dopotutto, è ben altra storia. Ed è divertente, in fondo, che un simpatico collega come quello di cui vi ho sinora parlato lo ignori. Ancora più grave, però, è il fatto che lo stesso non si sia mai preso la briga di informarsi in merito ad un argomento che evidentemente non (ri)conosce, primo dovere legato al suo fantastico lavoro, spesso negato a noi giovani, stupidi ed ignoranti.
Senza dimenticare la spettacolare connessione che spesso è stato possibile stabilire fra i due generi, più vicini in realtà di quanto non si voglia credere: nomi come Lil Peep e Zillakami dovrebbero certamente farci riflettere; o ancora episodi crossover come quello che ha visto il rapper Ludacris e la nota band pop punk Sum 41 esibirsi sulle note di “Get Back”, ciascuno esprimendo al meglio la propria attitudine di riferimento. Insomma, entrambe le culture (quella hip hop, comprensiva della sua declinazione trap, e quella punk) hanno portato avanti nient’altro che due differenti approcci per il conseguimento di un obiettivo comune: imporre le proprie regole, trovare delle strade alternative, se non addirittura capovolgere o abbattere il diabolico “sistema”. Dopotutto, in Italia rap e punk hanno più volte dimostrato di andare d’amore e d’accordo, specialmente verso la fine degli anni ’90, e all’interno di veri e propri templi – oggi praticamente svuotati del proprio significato originale – come i centri sociali, autentiche fucine di avanguardie artistiche di vario tipo, senza i quali tante cose oggi non esisterebbero.
Allora, gentili lettori, la mia domanda a questo punto dello scritto non può che coincidere con quanto segue: com’è possibile che un mestiere così importante, delicato, sottopagato e poco considerato come quello del giornalista sia occupato da simili figure, promotrici di un immaginario fortemente divisivo e settario in ambito musicale? Perché, forse, fu proprio questo il grave errore commesso dal giornalismo musicale italiano anni addietro, ovvero quello di non aver abituato un certo tipo di pubblico – quello cresciuto a pane e riviste di stampo prettamente rock, per intenderci – ad ampliare i propri orizzonti cultural-musicali al punto tale da poter rendere possibile oggi un ascolto variegato e privo di pregiudizi dalla maggior parte degli appassionati. Il risultato, invece, è stato quello di allevare intere generazioni di orgogliosi terroristi della materia, ancor oggi convinti che l’unico panorama musicale minimamente degno di rilevanza critica e giornalistica sia sempre e solo quello legato ai migliori anni della propria gioventù, diffidenti, dunque, nei confronti di qualsivoglia genere di novità. E, allora, mi torna alla mente una bellissima frase del già citato e mai troppo compreso Barenboim, che recita: “la musica non è separata dal mondo; essa può aiutarci a dimenticarci di noi e al tempo stesso a capirci”. E volete sapere una cosa? È davvero divertente, in fondo.
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