La carriera di Emis Killa ha avuto un’importanza centrale all’interno della storia del rap italiano ma il pubblico non sempre gli riconosce la considerazione che, a nostro parere, merita. In questo articolo ne ripercorriamo i passi evidenziando i tratti culturalmente più rilevanti.
2011. È l’anno di “King del Rap” di Marracash, l’anno prima sono stati pubblicati “Controcultura” di Fibra e “Che Bello Essere Noi” dei Club Dogo, giusto per riportarvi, per i pochi minuti che impiegherete a leggere questo articolo, indietro nel tempo. È l’anno del disastro di Fukushima, della primavera araba e di morti illustri quali Steve Jobs e, per i fan del motorsport come me, di Marco Simoncelli.
Sono dodici anni fa e, precisamente il 26 luglio, viene pubblicato, su di un ancora poco utilizzato YouTube, un video destinato a cambiare la scena negli anni immediatamente successivi, con dei sovvertimenti di schemi che si protraggono fino ai giorni nostri e da cui ha inizio la nostra storia.
Il video in questione si intitola “Sono Cazzi Miei” e a rappare è un ventunenne originario di Vimercate, con camice da tamarro e il cappellino di lato. Quel giovane risponde al nome di Emis Killa, ed oggi voglio parlare di lui perché, a mio modesto parere, non viene riconosciuto quanto gli spetta per una serie di motivi di cui voglio discutere con voi.
Ma andiamo con ordine. Quello in questione è il singolo che metterà la pulce nell’orecchio a praticamente tutti gli ascoltatori del genere (non così tanti all’epoca per la verità), ma ci arriva con già tre pubblicazioni che diventeranno importanti in seguito: “Keta Music” nel 2009, che peraltro darà vita ad una serie che continua tuttora e che si rivelerà più volte fondamentale nel corso della sua carriera, “Champagne e Spine” nel 2010, il primo album ufficiale, e infine “The Flow Clocker vol. 1” nello stesso anno, un mixtape.
A questo punto possiamo già osservare un tratto che, a suo modo, rivoluzionerà l’industria di li a poco. Emis Killa appare diametralmente opposto all’idea di rapper che c’era all’epoca mostrandosi pettinato e alla moda, in netto contrasto con l’abbigliamento largo e i toni da emarginati che vigevano quasi dittatorialmente tra i rapper dell’epoca, scelta per cui non venne visto di buon occhio dai più all’inizio. Tuttavia, questa scelta, ha fatto da apripista per molti venuti dopo di lui, basti pensare a Fedez, ai ragazzi di Honiro (emblematico il brano “Skinny e Vans” a riguardo, quasi a voler esorcizzare i baggy e le felpe oversize), ma anche ai più recenti Sfera Ebbasta, Dark Polo Gang e praticamente tutti i più giovani che hanno definitivamente capovolto le tendenze sulla scia degli states.
E non siamo che all’inizio.
Poco più di sei mesi dopo viene pubblicato “L’erba Cattiva”, il primo disco sotto major che lo consacrerà come un top, se non il nome di punta di una scena stagnante che necessitava disperatamente di una boccata di ossigeno. All’interno un bilanciamento di rap e cantato come si era ancora poco abituati ad ascoltare, basti pensare alla presenza di hit definibili “radiofoniche” come “Cashwoman” e l’ancora oggi famosissima “Parole di ghiaccio” e al contempo la presenza di mostri sacri del rap italiano come Fabri Fibra, Guè (all’epoca ancora Pequeno e parte dei Dogo), Marracash e Tormento. Grazie a questo dualismo, come detto, Emis Killa arriverà rapidamente ai vertici dell’industria, pubblicando l’anno dopo “Mercurio”.
A questo punto dobbiamo fermarci un attimo, perché il “discorso Mercurio” è estremamente delicato e divisivo. Questo è infatti il disco che ha aperto al rapper milanese le porte del mainstream, che all’epoca ancora non era accettato ma, al contrario, violentemente criticato. La somma della presenza piuttosto massiccia di caratteristiche pop all’interno del disco, della già divisiva immagine che il rapper mostrava e della sua presenza in televisione, assoluto tabù dei tempi, in programmi come “The Voice”, rischiò di comprometterne irrimediabilmente la carriera appena sbocciata.
La riflessione che va fatta però – col senno di poi e a mente lucida – è che ora tutti questi tratti sono presenti nella stragrande maggioranza dei rapper il cui nome è piuttosto rilevante, eppure ad Emis Killa ancora viene fatta pesare questa fase di carriera. L’aspetto paradossale è che, citando Marracash, è proprio lui ad essere stato “il cavallo di Troia con dentro gli altri”, aprendo le porte del mainstream ad un genere che altrimenti rischiava di rimanere di nicchia e che, con tutta probabilità, non sarebbe mai diventato il numero uno indiscusso delle classifiche italiane.
Ma Emiliano non è tipo da lasciarsi sovvertire dalle critiche, anzi.
Dopo due anni in quello che possiamo definire “limbo commerciale” pubblica a sorpresa “Keta Music vol.2”, un disco estremamente ed esclusivamente rap, con i nomi più grossi della vecchia e della nuova scena (basti pensare ad esempio a Bassi Maestro, ma anche a Sick Luke e Lazza ancora poco più che sconosciuti) in cui non le manda a dire, risponde alle critiche senza giustificarsi, ma dimostrando l’unica cosa che conta, che Emis Killa il rap lo ama con tutto se stesso. L’emblema è “C’era una volta”, una lettera d’amore al genere quasi commovente per chi ne è appassionato.
Di li in poi ci saranno “Supereroe”, “17” con Jake La Furia e la terza parte di “Keta Music” che mantengono un unico filo conduttore: quello di un rapper capace di fare praticamente ogni cosa musicalmente parlando, la cui penna è ancora in grado di regalare apici dall’innegabile spessore.
Eppure, dopo questo lungo e tortuoso viaggio, in cui Emis Killa apparentemente è uscito sempre vincitore. Il suo nome ancora non viene accostato a quelli grandi per davvero, ai Marra e Guè per intendersi, o agli Sfera e Lazza, per citare qualcuno venuto dopo. Emis Killa ora sembra stanziare in un limbo quasi di risentimento dovuto a quel biennio tra il 2013 e il 2015, nonostante siano passati ormai dieci anni e abbia ampiamente dimostrato come si trattasse di una fase, di un esperimento.
Ma allora perché c’è questa percezione di “nome di seconda classe” quando in realtà ci troviamo di fronte ad uno che, per durata della carriera e traguardi archiviati, è a tutti gli effetti un capostipite del nostro rap, nonostante la giovane età (perché Emis Killa di anni ne ha solo 33 rispetto ai 40 passati dei vari Guè, Fibra e soci esplosi immediatamente prima di lui)?
La mia “teoria”, se così vogliamo chiamarla, è che Emis Killa sia il nome giusto al momento giusto per la scena, ma non per se stesso. È stato l’anello di congiunzione tra la scena del 2000 e quella del 2016 per tutti i motivi di cui vi ho parlato e da solo ha trainato il genere in un periodo tutt’altro che florido, dove i big erano in momenti difficili delle rispettive carriere, basti pensare che Marracash, in tutto il periodo 2011/2015, ovvero dall’apparizione di Emis fino alla fine della “fase Mercurio” non ha pubblicato praticamente nulla. E nel momento in cui è tornato al rap “puro” non ne ha potuto raccogliere i frutti perché sovrastato dai vari “Squallor”, “Status”, “Vero”, “XDVR” ecc usciti nel biennio 2015/2016.
Purtroppo Emiliano è stato un innovatore capace di far cambiare punto di vista ad un pubblico estremamente chiuso e ad un’industria che ancora non riusciva a vedere il pieno potenziale del genere, finendo purtroppo vittima della sua stessa capacità di cambiare le cose e non riuscendo a raccogliere a pieno i frutti di tutto il suo percorso, nonostante, ovviamente, una carriera da superstar.
Tutto questo lungo discorso in fin dei conti altri non è che una passeggiata nostalgica lungo la carriera di Emis Killa, fatta da uno che ha avuto la fortuna di seguirlo fin da quel 26 luglio 2011 e che, pertanto, ha avuto modo di chiedersi il perché di certe dinamiche, con la speranza di permettergli, magari anche solo in piccola parte, di ottenere finalmente il riconoscimento che merita.
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