Nella riedizione di 68 (“Till the End”, uscita il 5 aprile scorso) Ernia opta per la favola raccapricciante: Un sasso nella scarpa è una tremenda profezia e un lucidissimo affresco del tempo nostro.
Usare l’animale per parlare dell’uomo è una strategia ardita ma vincente, indice di due scelte: ridefinire il secondo alla stregua del primo, come uomo “bestiale”; porsi consapevolmente in un filone che dalla stessa metafora ha derivato esiti altissimi: George Orwell in Animal Farm, per citare il caso più noto.
Fin dagli albori del genere, la favola ha ed esige un contenuto moralistico: Esopo, il più grande dei Greci da questo punto di vista, chiudeva i suoi brevi racconti con “La favola dimostra che …”, cui seguiva una lapidaria sentenza: il lettore medio che vi si imbatteva riceveva un insegnamento valido per sempre. Spesso, il tono era di rimprovero o di richiamo: l’uomo vizioso, sbagliando, veniva punito; quello onesto e integro, seppur inaspettatamente, trionfava.
Ernia si inserisce nel solco di questa tradizione, e lancia un grido di allerta alla società tutta. La sua morale è una morale sana e valida, che dovrebbe far riflettere ciascuno di noi nella più immediata quotidianità. Potremmo sintetizzarla così: l’uomo del nuovo secolo è diventata bestia da e del social. Per comprendere questa affermazione, è opportuno scomporre il testo nella sua ricchezza di rimandi e implicazioni.
Fin dall’incipit, il rapper milanese chiarisce lo statuto onirico del racconto: il “sogno così brutto” da cui teme di non uscire sarà la materia della riflessione; una esigenza impellente, concretizzata nell’immagine forte del sasso nella scarpa, fa sì che il sognatore debba necessariamente rivelare il contenuto della sua scoperta. Egli, che ha avuto accesso in sogno a una verità grossa e pericolosa, la scopre dinanzi a noi, ora compartecipi della sua sapienza.
Un Sasso Nella Scarpa, l’analisi
“Una nube nera oscura il cielo piena d’odio, sta per piovere commenti
Parole brutte così scure, che se le pronunci, ti sporcano i denti”
Ognuno scrive anche se non capisce, dice, “Di parlare ne ho il diritto”
Un uccellino che cinguetta al posto suo porta i messaggi dai mittenti, ah
Il sogno è un sogno brutto, fin da subito: il cielo è percorso da una nube nera carica d’odio, e sembra rilucere della sua violenza; commenti brutti stanno per piovere su un campo grigio, urlati da tutti e da nessuno, da volti che non appaiono: l’uccellino cinguetta nel silenzio apocalittico e racconta il loro odio, depositando invettive e minacce. Quello che Ernia qui ci racconta è uno scenario becero, ma terribilmente comune: è la tua bacheca Instagram (Facebook e Twitter, cui rimanda l’immagine del volatile).
La tua homepage social che a distanza di pochi secondi si ricarica di post, commenti, luci, colori: input visivi di un percorso labirintico dentro conversazioni virtuali di cui oggettivamente poco ti interessa, ma in cui puntualmente ti tuffi a capofitto. L’esigenza paranoica di ricaricare la schermata principale dipinge te, lettore e uomo del nuovo millennio: la necessità di essere distratto da input infiniti, come se ci fosse un costante rumoreggiare fastidioso (il “brusio in sottofondo” di cui parla il testo, esplicitato dal coro di voci infantili che torna come motivetto nella canzone); la disarmante incapacità di tenere i binari di una conversazione uno-a-uno; il bisogno di perdersi in storie di poco conto momentaneamente condensate di un significato assoluto; la frenetica attesa del commento dell’hater, del botta-risposta, del dissing; lo sdoganamento incondizionato di un linguaggio d’odio. Su questi due ultimi punti sembra insistere Matteo Professione, classe 1993.
L’utente medio dei social si trova a percorrere un terreno mediocre in cui l’odio e l’accanimento da tastiera sono antidoto alla noia. La sua è una identità irrisolta: è uno e nessuno, è burattino (anonimo ma con un suo profilo) che tiene dietro – come tutti – alla “vacca grassa di nome Opinione”, protagonista indiscussa del campo e personaggio meglio riuscito di questa favola. Essa se ne va tronfia di sé a nutrirsi degli altri animali e del loro inconsistente odio: ingannevole, come è da sempre Opinione, completa il loro processo di imbestialimento (inverso a quello orwelliano, in questo caso). L’utente-una-volta-uomo è ora animale, puro istinto, e obbedisce al principio della conservazione di sé e dell’odio di chi disturba la sua area di pace. Convinto di fare il suo gioco, non fa che nutrire la vacca e correre ai suoi comandi o ai suggerimenti dei maiali, gli animali-social più accreditati e degni di stima:
“E oggi la vacca ha detto che al prossimo pasto vuol mangiar la testa del capro”
Altra entità tipica del gruppo: il capro espiatorio. Chiamato pharmakos (“medicamento”, letteralmente) presso i Greci, è colui al quale vengono addossate le colpe di tutti, la preda succulentissima degli haters. Uno inizia a incolpare, segue l’offesa e il vituperio di tutti. La sua colpa, come in Grecia cadeva sui figli, cade sui suoi sostenitori: via agli insulti sul profilo di questi, via ai like, ai commenti imbecilli e pieni d’immotivata ira.
In questo “campo immenso di colore grigio”, fatto di odio, omologazione ed “erbacce alte una spanna” (dotate di gran visibilità, ma di scarsa qualità), è facile ingannarsi e coltivare falsi idoli. Ernia rende questo passaggio con un’immagine vivida, che pare rievocare il celebre aneddoto di Ercole al bivio. Al centro della radura due gabbie: una è d’oro ed è abitata da un cigno vanesio che cerca attenzioni; l’altra, piccola e pericolante, è abitata da un’oca poco seducente. La folla si precipita all’acqua del cigno,
E il flash delle foto di tutti rendono la gabbia, illuminata a giorno
E pubblican foto del cigno impazziti come fosse il loro lavoro
Ma nessuno si è accorto che l’oca è da giorni che caga delle uova d’oro
Il finale è di per sé eloquente: il talento che cova nelle erbacce è ignorato, la mediocrità che abita nei palazzi è idolatrata. Un Ernia quasi sapienziale che sembra riecheggiare il celebre verso di De André (da lui molto ammirato) in Via del campo – “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior” – come pure deandreiano è il riferimento implicito alle comari di Bocca di rosa, per le quali, manchevoli di iniziativa, “le contromisure fino a quel punto s’eran limitate all’invettiva”: anche qui, un approvato linguaggio dell’odio esprime la disapprovazione del paese.
Per concludere: l’affresco del nostro tempo dipinto in questo brano è tremendamente veritiero. Siamo come ci descrive Ernia: tutti egualmente commentatori sui social, abbiamo la pretesa di distinguerci nel farlo; pesci nella rete, ci convinciamo di non esserlo; ormai virtuali più che reali, ribadiamo la nostra genuinità (“no ma io sui social ci sto poco!”). Siamo bestie da e del social, perché in quel terreno siamo sempre soggetti e oggetti, tiratori e bersagli. Infine: spogliati della nostra quotidiana maschera, ne indossiamo un’altra ancora più omologata, che di mestiere semina insulti in un campo d’odio.
Un altro che questa saggezza l’ha raggiunta, Fibra, ci allerta contro la diffusa egomania del nostro secolo, ma in maniera provocatoria: “Fallo anche tu, e come no / Si guadagna di più, è comodo […] Tutti vogliono un fenomeno”. E perché dovresti essere l’unico a dire di no? “Tranne te” è il grido di disapprovazione e condanna che nemmeno lo stesso Fibra è riuscito a eludere.
“Cent’anni fa si facevan gli autoritratti
Io che ho letto mille libri, mille autori matti
Per avere mille like dimmi che baratti
Tu che consideri arte pure gli autoscatti
Ernia è invincibile sopra il campo, zio Invictus
Paralizzati se non c’è campo zio, ictus”
Di Marco Palombelli
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