Perché Auto Blu è una hit
Auto Blu di Shiva è un prodotto musicale perfetto per efficienza ed efficacia.
Se dicessimo che il brano del rapper milanese classe ’99 è un flop, probabilmente verremmo bollati come “negazionisti” retrogradi; bisogna ammettere, senza mezzi termini, che la traccia sopra nominata è una hit a tutti gli effetti.
In soli quattro giorni Auto Blu ha totalizzato la bellezza di più di quattro milioni di streaming, viaggiando all’incredibile media di almeno un milione di ascolti al giorno, riuscendo a piazzarsi anche quarantottesima nella chart globale.
Il singolo è sicuramente un brano ben pensato: campionando il sample dell’iconico brano degli Eiffel 65 “Blue (Da Ba Dee)”, oltre che ad assicurarsi un successo scontato, se teniamo conto della perpetua gloria dell’immortale hit, Shiva ha voluto acquisire, in un colpo solo, ancora più fama e notorietà trovando un punto d’incontro tra i nuovi fan e i vecchi ascoltatori, sobillati dalle nostalgiche sonorità dance degli anni ’90.
A primo impatto potremmo ritenere stupido il rilascio di tale brano in un periodo in cui i luoghi di aggregazione sono chiusi causa COVID-19, ma ragionandoci un pochino su, bisogna considerare che “Auto Blu” è una canzone che si lascia mettere da sola: in periodo di quarantena forzata, i genitori costretti a condividere gli stessi spazi con i propri figli, riconoscendo il beat stratosferico e memori di una gioventù spensierata, chiuderebbero un occhio sulla riproduzione del pezzo.
L’auto-promozione della canzone viene inoltre sostenuta dalle challenges spopolate in questi giorni, in cui si invita a mettere brani o a riesumare ricordi, accompagnati da sottofondi musicali, nelle proprie Instagram Stories per celebrare una passata libertà tanto data per scontata ai tempi.
Non staremo qui di nuovo a riportare, come hanno fatto i principali megazine, le parole che Salmo ha detto in merito a questa nuova apparente ondata di brani con beat dance; prima di Shiva e Anna (con “Bando”) c’è una sfilza infinita di nomi (Dargen D’Amico, Club Dogo e affiliati, Fabri Fibra, Croockers, Two Fingerz, Noyz, Fedez, la Machete – francamente, fra le ultime tra questi citati- e chi più ne ha più ne metta) che si sono divertiti a rappare su basi elettroniche o dubstep, lo scopo all’epoca era molto diverso rispetto a quello attuale, poiché l’uso di tali tappeti musicali era finalizzato ad allargare il cerchio di ascoltatori concentrati musicalmente altrove e totalmente lontani dal rap. Se in America, i rappers e i loro produttori erano ispirati dal soul, dal blues e dal jazz per portare avanti ed innovare un genere musicale, in Italia, venivano campionati pezzi ballabili, oltre che per un gusto personale e per un’impronta italiana, principalmente per poter dare respiro ad una musica che era ancora povera di pubblico e di ascoltatori mutuati.
Nessuno può sentirsi realmente padre di questo sottogenere rap, le intuizioni dance fluttuanti nell’aria al tempo, catturate e messe nei beat, furono di massa e non individuali; ad oggi, la wave dance, come l’happy trap, rischia di essere soltanto una breve parentesi nell’albo storico del rap, difficilmente potrà diventare un prodotto tanto italiano e tanto identitario da essere emulato o replicato all’estero. Non è da escludere l’emulazione di tale genere dai cugini tedeschi, da sempre amanti dell’elettronica italiana, e da qualche altro stato europeo particolarmente affascinato dalla musica da discoteca tricolore.
Perché Auto Blu funziona
In un passato non troppo remoto la creazione di una hit radiofonica, veniva sì studiata a tavolino per poter creare un brano che, con il suo impeto dirompente, avrebbe permesso all’artista di stuzzicare più ascoltatori possibili, ma tale scelta veniva comunque subordinata al gusto personale dell’autore.
Parliamoci chiaro: chiunque contribuisca a rendere la condivisione della propria produzione musicale da privata a pubblica, lo fa, giustamente, per avere un ritorno economico utile a poter potenziare ulteriormente le proprie apparecchiature, al fine di fornire un prodotto sempre migliore e più consono alle corde della propria vena espressiva, ma ciò a cui assistiamo oggi è la creazione, da parte delle industrie musicali, di veri e propri hitmaker armati indistintamente di slogan su misura e strategie di marketing testate e funzionanti al 100%.
Se la Coca Cola, la bevanda simbolo del capitalismo presente sulle tavole di tutto il mondo dagli anni ’60, ci ha insegnato qualcosa è che anche il marketing può tranquillamente assumere fattezze creative ed artistiche (si veda il caso di ambient-art in cui la multinazionale aveva disposto a terra in Piazza San Marco a Venezia grandi quantità di becchime in modo da replicare la scritta del brand. Pochi minuti dopo si riempì di piccioni e il resto è divenuto storia), ma al contrario, ciò che vediamo oggi, è una serie di strategie di poco differenti fatte di freddi numeri e replicate da tutti.
Piccolo spoiler di 15 secondi su una Instagram’s Story o su Tik Tok, archiviazione di tutti i post nel proprio profilo, post di annuncio seguito da stormi di colleghi con il profilo verificato che inondano i commenti di emoji, rilascio del brano, tag su tag nei diversi social e, non appena il pezzo pubblicato raggiunge l’apice della curva degli ascolti, subito fuori il video musicale per non assistere ad una drastica decrescita. Questo è l’iter di pubblicazione che viene seguito, quasi da tutti, negli ultimi periodi, dopo che qualche mietitore di numeri ne ha dimostrato l’efficacia.
Ghali, in “Dende”, diceva “l’industria è un tritacarne, io sono halal (= senza peccato)”, quasi a sottolineare l’indipendenza dai trend musicali e dai dettami delle major, la realtà è che oggi, a distanza di quattro anni, le cose sono cambiate incredibilmente: non c’è più la major cattiva che dice cosa bisogna e cosa non bisogna pubblicare, al contrario, viene lasciato molto spazio purché si riportino risultati. E’ cambiato il rapporto lavorativo intessuto tra datore d’impiego e professionista. Ora c’è uno stretto legame triangolare, ininterrotto, tra pubblico, artista e major, in cui il secondo realizza ciò che il pubblico chiede, riportando negli alti uffici dei risultati tali che contribuiranno ad influenzare, a loro volta, la platea tramite i numeri propinati, le classifiche e le pubblicità.
L’efficienza prende il sopravvento sul sentimento, i numeri a tanti zeri gratificano l’ego più di qualsiasi altra iniezione di adrenalina, la hit diventa un lavoro più che un’espressione artistica: ecco che evaporano le emozioni, decadono le passioni e si annebbiano le percezioni. Dalle ceneri di un musicista nasce un hitmaker professionista addestrato a non sbagliare un colpo.
Tutto ciò che avete appena letto nei precedenti paragrafi compressurizzatelo e vi renderete conto l’esito finale sarà la seguente conclusione:
“Auto Blu” di Shiva è un prodotto musicale perfetto per efficienza ed efficacia, in cui gli sforzi vengono ridotti ai minimi termini al fine di estrarre un fabbricato che massimizza gli utili.
Non c’è stato nemmeno il bisogno di dover cambiare flow al pezzo originale degli Eiffel per far sì che tutto suonasse nel verso giusto, è bastato ricucire un testo aderente per ritmiche e accentuazione, con giochi sonori semplici e facilmente digeribili, con un autotune, a discapito di quanto Axos pensa, settato e mixato nel modo giusto da Patrick Carinci, abilissimo burattinaio, che agisce senza farsi vedere, mettendo mano su moltissimi pezzi che avete ascoltato ignorando completamente il suo intervento.
Campionando una hit planetaria, vincitrice di dischi di diamante, è impossibile il flop ma ciò che è altrettanto palpabile, è l’uccisione artistica che avviene nella catena di montaggio musicale che si è solidamente assemblata nel corso del tempo, con un pubblico avido pronto a cogliere, da ogni singolo movimento del musicista indizi di nuovo materiale da sbranare senza digerirlo per poi vomitarlo subito dopo, con professionisti hitmaker intenti a creare brani che stiano per qualche mese in cima alle charts ma nemmeno una settimana nel cuore degli ascoltatori.
Quando finirà tutto questo? Rispondere è difficile, bisogna prima osservare come cambierà il rapporto dell’ascoltatore con la musica una volta terminata la pandemia globale, perché come testimoniato storicamente parlando, ogni volta che c’è una grande pestilenza, l’uomo mette in moto un grande rinnovo valoriale e relazionale con tutto ciò che lo circonda.
Ciò che c’è di certo è che si necessita di una figura che, musicalmente, è talmente benestante ed indipendente da tirarsi fuori dai giochi per creare un’alterità musicale che metta seriamente in difficoltà il sistema; tramite una grande collisione tra una nuova ed una vecchia industria, nello scenario italiano, potranno realmente cambiare dettami di produzione.
Un’idea di chi possa essere questo fantomatico personaggio noi l’abbiamo già, ma lasciamo che essa prenda forma nella vostra testa.
Di Riccardo Bellabarba ed Ismail Ezzaari
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