“The
industry don’t understand” recitavano gli M.O.P. in “2G Building”, pezzo
contenuto all’interno dell’album “Warriorz” uscito ad inizio millennio. Errori
grammaticali a parte di cui potrebbe essere più proficuo disquisire con Lil
Fame e Billy Danze di persona; sarebbe bene concentrarsi su tale frase, ripresa
poi da Dj Shocca nel ritornello della traccia omonima facente parte di 60Hz,
che in molteplici situazioni è venuta fuori dalla bocca degli italiani in
riferimento alle novità all’interno del circuito dell’hip hop.
Nonostante
i mass media fatichino a digerire il monopolio di tale genere nel mercato
musicale italiano e nelle classifiche dei dischi più venduti, si può affermare
con serenità che il rap è arrivato nelle case del Belpaese e chiunque può
accedervi possedendo un semplice dispositivo dotato di connessione ad internet.
A sottolinearlo vi è il fatto che l’era attuale sia indubbiamente una delle più
floride di sempre in quanto a numeri e vendite, ma una domanda sorge spontanea:
la nostra nazione ha realmente compreso il rap nelle sue più variegate
sfaccettature o lo ha ripulito in modo da renderlo innocuo e digeribile
privandolo, pertanto, dei suoi punti forti? Per confutare o verificare il
suddetto quesito è necessario osservare le chart annuali delle best sales.
Negli States, così come in Francia, i dischi che hanno riscosso più successo
posseggono sì delle vere e proprie hit, come ad esempio “God’s plan” di Drake,
ma che nel contempo si alternano a pezzi dotati di pathos invidiabile e testi
complessi analizzabili su più livelli di significato ricollegabili a tematiche
di una profondità invidiabile, si pensi alla mole di liriche e riferimenti
presenti nel famigerato “K.O.D.” di J.Cole che ha scosso l’intero sistema
americano oppure album completamente sperimentali come quelli di Travis Scott
ed XXXTentacion le cui armi principali sono state l’unicità e l’ecletticità.
Facendo, invece, un passo indietro, nel 2018, Kendrick Lamar arrivò dove nessun
rapper riuscii mai ad arrivare: la vittoria del Premio Pulitzer in seguito ad
un capolavoro come “Damn”.
L’Italia ha compreso la cultura che il rap porta con sé?
In
Italia, al contrario, in seguito alle innovazioni importate dal sottogenere
trap, le prime posizioni sono occupate da prodotti di pregevolissima fattura
contenenti delle hit da club che hanno avuto un riverbero quasi europeo ma
nessuno di essi è bilanciato da una controparte più devota al mettersi a nudo
col pubblico né da un competitor credibile che possa toglier loro lo scettro. I
liricisti italiani sono apprezzabili in quanto a stesura delle opere ma
faticano ed arrancano a dialogare con la black music e con le sue novità e
quindi a proporre un progetto degno di nota in linea con le logiche di mercato
poiché spesso si sfocia nei banalissimi luoghi comuni fatti di divisioni e
barriere mentali in una cosa come l’arte che fa della libertà il proprio
vessillo più grande. Addentrandosi maggiormente nel panorama dei rapper
nostrani più redenti dal punto di vista della scrittura, si evince che questi
ultimi siano degli ottimi discendenti della generazione cantautoriale ma allo
stesso tempo di gran lunga distanti dall’essere gli eredi di autori sopraffini
del calibro di Marracash.
Ipotizzando
però di possedere delle penne come quelle di J.Cole, di Kendrick Lamar o di
Childish Gambino saremmo sicuri che cambierebbe totalmente il modo di concepire
la musica urban? Ciò che è certo è che sarebbero di forte impatto per il volgo
e proprio per questa motivazione potrebbe essere ostica la loro presenza nei
piani alti dell’industria discografica italiana perché, ad un’audience
prevalentemente in età adolescenziale, parafrasando Ghali, probabilmente,
l’ignoranza interessa più della cultura. Una siffatta proposizione fa emergere
dal quadro generale che agli occhi, o meglio alle orecchie, della fetta di
supporter più paganti l’arte dei suoni sia percepita quasi interamente come un
espediente avente il mero fine dello svago e solo in sporadici casi quello del
voler riflettere o ragionare su un qualsivoglia argomento che necessita di una
conoscenza pregressa.
Pertanto,
come chiosa, è importante rivedere il modo di porsi in primis da parte degli
addetti ai lavori ed educare chiunque al fatto che la musica può essere uno strumento
fruibile da tutte le generazioni, oltre che di divertimento, utile al fine di
creare un dibattito, affrontare importantissime questioni socio-politiche e
farlo meglio degli enti specializzati in codesti settori poiché il linguaggio è
fatto dalla gente per la gente stessa. Fino a quando non ci sarà una presa di
coscienza di così grande portata od un cavallo di Troia [con dentro gli altri,
ndr (cit.)] pronto a conquistare la cima delle classifiche, proprio come gli
Achei con la città di Troia, avremmo solo un futuro costernato di seguaci della
vanità di Dorian Gray che tra essere od apparire sceglieranno sempre e solo la
seconda e che non avranno compreso l’industria che, al contrario, gli avrà
schedati da capo a piedi.
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