Nel manga “Dragon Ball” di Akira Toriyama vi è una costante a livello narattivo che si ripete quasi in ogni arco della storia: l’eroe di turno, che sia Son Goku, Son Gohan o Trunks, riesce a sconfiggere il nemico, in seguito ad uno scoppio di rabbia e/o disperazione che gli dà la forza di riuscire in quest’impresa.
Questa formula non suona di certo nuova a chi è avvezzo ai media d’intrattenimento narrativi, spesso è proprio la voglia di vendetta o di riscatto, la furia o la disperazione a fungere da deus ex machina nella soluzione dell’intreccio.
Portiamo un altro esempio, nel film noir “Sin City”, di Robert Rodriguez, Frank Miller e Quentin Tarantino, il protagonista, Marv, interpetato da Mickey Rourke, sprontato proprio dalla rabbia e dalla vendetta, diviene una vera e proprio macchina da guerra inarrestabile e senza scrupolo alcuno.
Un escamotage narrativo del genere può sembrare sbagliato o, per dirla in modo più terra terra, “paraculo”, ma in realtà è una tecnica che se viene usata in modo sapiente, costruendo un climax coerente e continuo, risulta tra le più interessanti da mettere in scena.
Il capostipite non va ricercato troppo indietro nel tempo, c’è chi penserà ad Achille che vendica Patroclo uccidendo Ettore nell’Iliade, ma in quel caso l’eroe è già di gran lunga superiore al suo avversario e la furia non serve a potenziarlo ma solo a giustificare le sue azioni. Restando nell’epica e nell’antichità abbiamo esempi simili nella Bibbia, nell’Iliade o nelle leggende Latine, ma il reale capostipite è il poema cavalleresco del 1516 “L’Orlando Furioso“, di Ludovico Ariosto.
In quest’ultimo, il nostro protagonista, venuto a sapere dell’amore tra la sua amata Angelica e il suo rivale Medoro, perde completamente il senno diventando un guerriero imbattibile tanto da riuscire a raggiungere l’Africa a nuoto per sgominare da solo l’intero esercito saraceno.
Nella vita reale però, sembrerebbe impossibile sfruttare l’ira per diventare più forti e riuscire nel proprio (apparentemente irraggiungibile) obbiettivo grazie alla disperazione .
Invece non solo è possibile, ma è anche successo.
Fabri Fibra, rapper classe 1976, riuscì nell’impresa nel 2004 pubblicando “Mr. Simpatia“.
Dopo anni e anni passati come rapper “ordinario”, tentando disco dopo disco di raggiungere il successo per andare in major, delusioni amorose, delusioni lavorative e vari problemi personali, il rapper marchigiano decide da dare la colpa a sé stesso e compie l’estremo gesto del suicidio artistico.
“Un colpo in testa cosa vuoi che sia, è morto Fibra ma è risorto Mr. Simpatia“
Ciò che ne nasce è un disco colmo di rabbia, depressione ed odio, rivolti, si verso una società sbagliata, ma principalmente verso Fibra stesso.
Un lavoro pessimista che porta un linguaggio e dei modi che erano completamente nuovi al rap italiano. Tutta quella violenza, quel turpiloquio, quella denuncia sociale tanto populista quando diretta, caratterizzano il personaggio di Mr. Simpatia come un pazzo squilibrato senza coscienza, ma allo stesso tempo vero, terribilmente vero, come se il velo di Maya fosse stato non tolto, ma strappato e ridotto il mille pezzi.
L’italia che fotografa Mr. Simpatia è un’Italia qualunquista, sporca, folle e tossica, quasi fosse lei la madre del personaggio che poi ripudierà.
Con un lavoro così, quindi incanalando le sue emozioni negative, Fibra non sconfiggerà da solo un esercito come l’Orlando al quale lo paragonavamo poco fa, ma metterà in ordine la sua vita e finalmente strapperà un contratto in major.
Come faceva intendere un contemporaneo di Ariosto, l’autore del Furioso, “Il fine giustifica i mezzi” e soprattutto con Fibra, non è mai stato così vero.
Di Giordano Conversini
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