Il mantello finemente ricamato in tessuti dorati cade a terra, ciò che si vede è una “misera” tutina glitterata che copre a malapena le parte intime. Quattro minuti sembrano solamente poche manciate di secondi. La performance finisce, mani raccolte davanti agli attributi maschili, sguardo fuggente e via dal palco dell’Ariston. Il pubblico, vorace di spettacolo, rumina l’esibizione e per quanto esso sia stratificato, non dimostra una digestione comune. Grasse risate, occhi sbarrati, applausi timidi. Tutto si rapprende in una serie di emozioni apparentemente indecifrabili che straripano in un fiume di memes, aggiornamenti di stati e cinguettii.
Achille Lauro fa l’ingresso sul palco dell’Ariston, nella settantesima edizione del festival della canzone italiana, scendendo a piedi nudi i quindici scalini precedentemente calpestati da scarpe eleganti e tacchi sedici. Termina il brano, non aspetta nemmeno che finiscano gli elogi di Amadeus che Lauro è già dietro le quinte.
“Me ne frego” è il brano portato quest’anno dall’artista romano, la canzone racconta di una storia d’amore leggermente atipica per il pubblico sanremese dato che l’oggetto della narrazione è un amore parassita che strega e distrugge l’io narrante sobillato da una mistica femme fatale.
La canzone in quanto tale non è di difficile comprensione, ciò che invece può restare ostica è la sua interpretazione, ma poiché l’autore era già consapevole di tutto ciò, ha disseminato qua e là diversi indizi utili a comprendere l’insieme.
Analisi della canzone e della performance di Me Ne Frego di Achille Lauro
Achille Lauro già da tempo sui social e su Spotify aveva diffuso la sua nuova immagine del profilo avente San Francesco, l’iconico santo cristiano patrono d’Italia e autore del “Cantico delle creature”. Francesco è rimasto impresso nelle storia per essersi spogliato di tutti i suoi averi, per averli consegnati ai poveri e per essersi successivamente dedicato ad una vita di religione e redenzione.
Il vestiario stravagante, le movenze pseudo-femminili e iconicamente glam richiamano lo scenario creato e utilizzato da artisti del calibro di David Bowie e da Freddie Mercury, ma attenzione: non siamo davanti ad un’indegna riappropriazione, bensì ad una rivisitazione tipicamente post-moderna, genere artistico famoso per il riuso di grandi modelli passati svuotati, rimodellati e caricati di nuove tematiche.
Nel momento in cui Achille si toglie il suo mantello, come San Francesco, l’artista si spoglia metaforicamente della sua vecchia vita fatta di crimini e abbraccia una vita nuova: rimanendo semi nudo davanti al popolo italiano fautore della rinascita dell’ex brigante romano, la tutina glitterata acquisisce un’inaspettata forza che distrugge l’ideale machista aleggiante negli ambienti rap e trap, il fisico esile e non perfettamente scolpito riscopre una sua libera grazia, la rivolta silenziosa dell’artista innesca una tale confusione capace di rimescolare i ruoli di genere, di sgominare e mettere in crisi chi classifica secondo le statiche cartelle mentali “da femmina/maschio”.
L’obbiettivo è raggiunto, il colpo è arrivato: le mura del teatro dell’Ariston, gli spettatori, della platea e del pubblico televisivo, intrisi di una mentalità prettamente patriarcale rimasta ferma agli anni ’70, subiscono uno scossone; l’indignazione generale si riverbera fortemente in ogni angolo, dalla tv, ai social, ai giornali.
Ma Achille di tutto ciò se ne frega. Il titolo, come già subito polemizzarono i giornali, è sì uno slogan fascista ma esso è scrostato dalla patina intimidatoria che in questo caso, più che di una provocazione arrogante, assume i connotati di una pura manifestazione dell’io senza nessuna etichetta e libero di essere sé stesso.
La canzone non è il brano adatto a vincere Sanremo, il vestiario non è consono a certi ambienti, il talento da cantante eccelso non ce l’ha, ma francamente tutto questo non scalfisce per nulla l’artista romano.
L’intelligenza dell’esibizione sta nel saper proporre un brano che non è musica da ascoltare seduti in abiti da sera, ma da ballare in un concerto, ed era quindi necessario trovare un modo per poter attirare l’attenzione di un pubblico inadatto tentando di emozionarlo nelle maniere più disparate.
La vita della canzone non si esaurisce con la performance nelle serate del festival perché se si ascolta il brano registrato in studio, si sente la diversità viscerale del composto ed è possibile avvertire i synth richiamanti lo stile glam che con l’orchestra di Sanremo assumono forme diverse conseguentemente allo scenario in cui viene calata l’esecuzione.
E’ incredibile quanto risulti contraddittorio leggere le varie lamentele dovute allo spettacolo poco piacevole e di cattivo gusto, specie se a borbottare sono gli stessi che tollerano ogni tipo di violenza o volgarità espressa in qualsiasi forma artistica visiva; però sia mai, la musica deve essere sacra ed educativa, se la provocazione giunge da un musicista, e per di più a Sanremo, scoppia il caso di stato, perché ciò che l’italiano reclama quando si ritrova a guardare Sanremo è un intrattenimento tranquillo, imprigionato in una bolla avulsa dalla realtà in cui riprende vita un fantasioso regno incorrotto e ispirato al passato lucente che fu.
Credo che sia necessario rendersi conto che lo spettacolo a cui abbiamo assistito non era assolutamente Lauro semi nudo, perché lui ha immediatamente coperto le sue oscenità non appena ha terminato la performance. Lo spettacolo vero è stata invece la demolizione che l’artista ha attuato spogliandosi sul palco dei formalismi: la caduta del mantello a terra suona tanto di una frustata al bigottismo, al sessismo dilagante e ad una mediocre estetica vuota devota alla bellezza “capitata per caso”.
Achille Lauro in tutina, in eurovisione e davanti a milioni di italiani, è una forte provocazione che non necessita della soave voce di Freddie Mercury per scuotere l’indignazione, ma il ragazzo che si è coperto il pacco quando Fiorello gli ha porto il microfono, è Lauro De Marinis che si sta redimendo e che sta velatamente invitando anche noi a fregarcene e a far spogliare le nostre menti dalle pesanti vesti dei cliché.
Di Riccardo Bellabarba
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