“Stare seduti ad ascoltare infinite volte la ripetizione del «canone» finché si comincia a provare quel vuoto senso di comprensione che è forse alla portata solo dell’ascoltatore esterno è praticamente l’unico modo di scendere al di sotto della superficie Aliena e, sì, volgare del rap e sentirne il pathos, quella qualità di «vera musica» che si percepisce meglio che mai nei solchi vuoti fra una traccia e l’atra del disco, nei luoghi dove all’ascoltatore è consentito prendere fiato; ed è il modo migliore di vedere che le obiezioni sollevate dalla maggior parte dei tradizionalisti all’«autoreferenzialità» del rap sono fallaci non tanto perché non fanno centro, quanto perché mirano proprio fuori dal bersaglio”
David Foster Wallace, Mark Costello – “Il Rap spiegato ai bianchi”, p. 208 (1989)
Partiamo da “Il Rap spiegato ai bianchi”, o meglio da “I Rapper Significanti”
David Foster Wallace è stata una stella della letteratura americana, capace di parlare di qualsiasi cosa e di fare emergere concetti filosofici dai temi che meno ti aspetti, come il tennis. Nel 1989 scrisse un’opera a quattro mani con l’amico e collega di Harvard Mark Costello. Questo significa che scrissero in maniera seria di rap a ridosso della nascita dell’Hip Hop, che all’epoca stava muovendo i suoi primi passi.
Il piccolo libretto in italiano è stato intitolato “Il rap spiegato ai bianchi”, ma l’idea dei due è molto meno semplicistica di quanto il titolo italiano lasci pensare. Sì, perché il titolo in italiano fa pensare a una sorta di razzismo culturale inverso nei confronti dei bianchi, quando in realtà il titolo originale è “Signifying Rappers” cioè i Rapper Significanti.
Il significante in semiotica è il segno, è il veicolo del contenuto ed è dunque la superficie del linguaggio. I rapper si muovono su questa superficie, ma ciò significa che sono superficiali?
Partiamo dal fatto che questa non è una recensione del libro, né tanto meno una spiegazione di quel che i due autori scrivono. Wallace è un punto di partenza per poter parlare di rap in maniera riflessiva, andando oltre il fenomeno massmediatico, per andare oltre la moda e la patina.
Il ragionamento non è semplice. Vi potreste chiedere cosa significa parlare di rap andando oltre moda e patina? Bella domanda, anzi una domanda bella impegnativa, al punto tale che questo articolo vuole essere un tentativo di rispondere a questo vostro dubbio. Per rispondere dobbiamo focalizzare l’attenzione su un esempio specifico.
L’esempio è l’autocelebrazione perché come dice il buon vecchio Marracash in “Bruce Willis”, pensare che l’autocelebrazione sia soltanto autocelebrazione è come pensare che una natura morta sia soltanto frutta. Per non farci ingannare dalla patina, per non restare incastrati sulla superfice del rap ci viene in aiuto “Signifying Rappers”, il quale ci dice che l’Hip Hop come tutte le sottoculture:
«è un modo di governare all’inferno: attraverso il proprio vocabolario, la propria sintassi, i propri gesti, la musica, la danza; attraverso il cibo, la retorica religiosa, le abitudini sociali e i rituali delle feste»
David Foster Wallace, Mark Costello – “Il Rap spiegato ai bianchi”, p. 129 (1989)
Se l’Hip Hop come sottocultura, il rap come genere musicale, e l’autocelebrazione iscritta nel DNA di questa musica è un modo di governare all’inferno, dobbiamo prima guardare di che inferno si tratta per potere capire come mai l’autocelebrazione nel rap può essere un mezzo per governarlo.
L’Inferno della società delle merci
L’inferno è il realismo capitalista descritto da un altro autore: Mark Fisher. Si tratta di un tipo particolare di inferno quello descritto in “Realismo Capitalista“. Non è l’inferno dell’immaginario dantesco, non sono ci sono gironi infernali dedicati a specifici peccati e abitati da una folta schiera di personaggi storici. Non si tratta tanto di un inferno immaginario, ma di una mancanza di immaginazione che può essere paragonata all’inferno.
L’inferno dei rapper è un presente in cui l’immaginazione non può creare nessun futuro.
L’inferno in cui vivono i rappers, così come tutti noi, è un inferno perché non è più possibile immaginare un futuro diverso dal presente. Un futuro che non esiste e che non può esistere. In questo inferno si pensa che tutto sia riducibile alla sfera del consumo, ogni oggetto, servizio termina la propria vita nel momento in cui diventa una merce da vendere e acquisire.
La vita stessa del rapper non è altro che una corsa all’accumulo di denaro, all’acquisto, ad ottenere sempre più merce da poter mostrare e di cui potersi vantare. Tutti i testi rap sono tappezzati da marche di qualsiasi genere: Maserati, Bentley, Casio, Rolex, Gucci, Lamborghini, Belvedere, Moncler, Balenciaga, VVS e chi più ne ha più ne metta.
Le marche che vengono mosse sulla superficie dei testi rap sembrano comporre un’unica lingua mondiale fatta di sigle, marche e slogan. Se ascoltiamo un testo rap marocchino, messicano, brasiliano, italiano o russo, per fare degli esempi a caso, potremo trovare un testo in cui sono citate le stesse marche di lusso.
L’autocelebrazione del rap non è solo l’ostentazione del proprio status per vantarsi di averlo più lungo degli altri, ma è uno strumento per governare all’inferno. L’autocelebrazione, specialmente in riferimento alle marche che siano orologi, gioielli, vestiti o macchine non è ostentazione e basta.
La ripetizione ossessiva delle stesse marche, degli stessi status symbol serve a decostruire un presente in cui non è più possibile pensare ad un futuro alternativo a quello in cui ogni sfera dell’esistente è riducibile alla sfera del consumo.
Vi chiederete: perché?
L’ Autocelebrazione
Perché l’autocelebrazione del rap è un modo per andare oltre un presente in cui tutto, anche i rapporti interpersonali sono quantificabili, classificabili in dati che poi sono venduti e consumati?
Una risposta potrebbe essere perché nell’autocelebrazione il rapper stesso diventa una merce a sua volta. La ripetizione del proprio nome è come pubblicità, è come propaganda. Quando Lazza in Netflix canta “Sto splendendo VVS1” possiamo pensare sia che brilla perché ha comprato un VVS grazie ai soldi fatti con il suo successo, sia che lui stesso splende come se fosse un gioiello di marca VVS. Tutto chiaro?
Lo status di merce a cui un rapper di successo può accedere, diventando in tal modo un prodotto tra gli altri è in realtà la realizzazione di una qualche forma di libertà. Ciò significa che l’autocelebrazione rompe l’idea che tutto sia riducibile al consumo, perché proprio nel momento in cui il rapper diventa merce per lui inizia un’altra vita.
Guardiamo cosa scrivono Wallace e Costello sulla libertà:
“La «libertà», cioè, diventa non più un fatto qualitativo, ma quantitativo, quantificabile, una fredda funzione logica del luogo in cui ti trovi e di ciò su cui la puoi esercitare. In questo momento, negli Stati Uniti, per i cittadini non liberi la libertà si identifica col «potere» contro cui aveva inventato se stessa. Non c’è da stupirsi se nel rap le parole d’ordine istituzionali del discorso pubblico dei bianchi sembrano distaccarsi, svuotarsi, galleggiare: Dio mio, la libertà non può certo essere semplicemente il denaro necessario a comprare e a ostentare!”
David Foster Wallace, Mark Costello – “Il Rap spiegato ai bianchi”, p. 207 (1989)
La ripetizione dell’ostentazione del rap svuota le parole d’ordine della società dei consumi. Quegli status symbol tanto ostentati vengono ripetuti in una litania mondiale del consumo fino a svuotarli del loro significato, fino a farli galleggiare al di là di ogni reale acquisizione materiale.
La società senza futuro che Wallace, Costello e Fisher criticano nelle loro opere disegna una situazione in cui il consumo di tutto è il vero imperativo ed il vero inferno:
“Ciò di cui gli individui hanno veramente bisogno e che si meritano più di ogni altra cosa è il denaro per comprarsi gli oggetti che determinano la loro «classe», alias «reputazione», alias libertà, alias potere, alias grado di credibilità e rispetto […] Per riassumere il Presente, dunque: per esistere, devi essere in grado di comprare; per essere credibile, devi comprare effettivamente; ma per essere […] rispettato – per non essere semplicemente l’oggetto di statistiche, astrazioni e campagne pubblicitarie, ma tu stesso l’oggetto del grande, enorme Sguardo ontologizzante di un Amante, di un Nemico, di una Comunità, di una Nazione – per guadagnare una Reputazione, devi avere, comprare e ostentare“
David Foster Wallace, Mark Costello – “Il Rap spiegato ai bianchi”, p. 212 (1989)
Il Rapper Significante riesce ad acquisire una Reputazione senza la necessità di una reale acquisizione materiale, e al contempo può riuscire perfettamente nel gioco dell’ostentazione, cioè quello dell’effettiva acquisizione materiale.
Il rapper inietta la propria immaginazione in un presente che ne è arido, e lo fa anche nel momento in cui si fregia degli stessi simboli che troneggiano nell’inferno della società senza futuro. Il rapper nelle fantasie delle sue autocelebrazioni ci fa vedere oltre la sfera del consumo, pur muovendosi proprio sulla superficie della stessa.
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