A piazza San Calisto, l’afa di agosto dispiega sulla muratura in bianco tutta la sua calura. È quasi l’ora di pranzo, ma non per i tempi di Roma; Maurizio, snervato da un colloquio molesto col caporedattore, scappa dall’ufficio in anticipo. Ora più che mai ha bisogno di un gin tonic, per dare freschezza a un Ferragosto cominciato male e continuato peggio. Nel cuore di Trastevere, la gente è poca, eccezion fatta per i soliti turisti con le loro incomprensibili abitudini. Come non faceva da tempo, volge il passo a quello che nella sua giovinezza era stata la sua seconda casa: il bar S. Calisto. Pensa che un ritorno ai tempi che furono possa riempirgli il cuore ed ispirarlo per la stesura di quell’articolo che tanto lo ha affaticato nei giorni precedenti. Riconosce l’insegna, poi il solito listino dei prezzi un po’ approssimativamente addossato alla parete. Una volta dentro, saluta il vecchio proprietario, con cui scambia la conversazione piacevole che è tipica degli amici d’un tempo. Con un brivido ripercorre tutti i momenti che una volta aveva vissuto in quel locale con gli amici della Scalinata; non li sente da molto, ma è stato felicissimo quando ha saputo che avevano cominciato a fare musica. D’un tratto, dal vano laterale, fa il suo ingresso un volto che non tarda a riconoscere.
È Asp, il suo più caro amico d’un tempo; quello con cui più aveva legato nella CXXVI. Accanto a lui Ugo, il sorriso sempre bonario e la barba incolta, fa notare:È mezzogiorno e se semo bevuti tutto er Todis. Pensa alla sera precedente, quando lo stesso Asp aveva constatato con amarezza: So’ finite le Peroni pure stasera. Non hanno smesso le vecchie abitudini, osserva tra sé e sé Maurizio, ancora defilato. Uno ad uno, si profilano tutti gli amici d’un tempo, quelli dei 126 gradini della Scalea del Tamburino; si fanno chiamare “Love Gang”, ora. Drone, Ketama, Sean, Franco: un tempo erano questi i loro nomi di strada; chissà che non li abbiano cambiati ora che le serate sono loro a tenerle. Sulla destra, Franco schiarisce la voce e si rivolge al barista: “’Na bira da 66 pe’ i guasconi, un Campari&Gin pe’ me”. Come er Vichingo, gli fanno eco i suoi compagni. Ugo, un po’ infastidito del pressapochismo dell’amico, puntualizza: Me bevo le canadesi perché co’ ‘sto callo ‘na 66 dopo dieci secondi se scalla; e ancora, affamato: È Ferragosto e ‘r pollo fritto è tradizione / Come le casse de Spoken (magnamo e bevemo!). Dopo un frettoloso brindisi al “Rione sentimento” comincia una vorace bevuta, in cui la conversazione va ai ricordi della giovinezza, a Gordo che non c’è più, a via Dandolo, a Maurizio che ora fa il giornalista, a Franco sospeso perché fece una ricerca sulle canne e a tanto altro.
A questo punto Maurizio, commosso nel sentir ripercorsa la sua stessa giovinezza, si alza in piedi e, un po’ incerto, va incontro alla sua vecchia famiglia: l’emozione è palpabile sui volti di tutti. Dopo essersi ripreso da una così affabile accoglienza e aver ordinato un secondo gin tonic, sollecitato, inizia a raccontare della sua vita, della famiglia, di come avesse lasciato Roma per cercar lavoro a Milano e di come là avesse trovato un posto e un po’ di stabilità… “Come il rap!”, lo interrompe con voce roca e profonda un volto che non conosce, in cappellino e tuta della nazionale. “Lui è Giannuzzo; da un po’ è dei nostri”, ribatte Pretty, facendo le dovute presentazioni. Gianni è der popolo, gli fa il verso il giovane barista, che svelto accorre col pollo fritto e le birre. Alzatosi il berretto a mo’ di saluto, Gianni aggiunge: Non sento nessuno, faccio da solo / Della strada sono il riassunto. Passate alcune ore così, sorseggiando e chiacchierando, Maurizio si gira verso Franco per domandargli un favore: “È da alcuni giorni che devo scrivere per la redazione un articolo sulla specificità della romanità, quale emerge nel cantautorato d’oggi. Il rap è senza dubbio il cantautorato dei ragazzi di vita, attualmente. Potresti darmi una mano?”. “Senz’altro”, gli risponde Franco.
Assunta un’espressione stranamente seria, comincia: “Roma è un’amabile madre, che ti nutre, ti sfida e ti ama: ha una sua anima, che le hanno forgiato la storia e gli uomini. Un gigante che ti culla tra le urla che non sente […] Santa e dissoluta, Roma ama e non perdona, come canta er Piotta. ‘Na madre premurosa, che te mena e t’accarezza. Noi siamo i suoi figli, viviamo nel suo grembo e dentro le sue strade ispiriamo la nostra musica. Se esci di qui, passeggi sui sampietrini che un tempo calpestarono i più grandi: Cesare, Michelangelo, Goethe” – ma che cazzo stai a di’ Franco? Non fa’ l’intellettuale, gli rispondono di là – “Perdonali, sai che sono fatti così. Dicevo, Roma fa i suoi artisti e, vanesia, le piace ritrarsi nei canti dei suoi cantori. Ascolta un vinile d’er Califfo, Gabriella Ferri, Claudio Villa o Lando Fiorini: quella è Roma, quelli siamo noi. Grezzi, sinceri, spontanei, romantici, malinconici; la Love Gang è Roma. Una birra stappata al Gianicolo, su Piazza del Popolo, guardando i toni del tramonto disegnarsi sul Tevere o sur Cuppolone; quella non sarà mai la birra di Milano, Bologna e Torino. La nostra musica è tutto uno sforzo di trasfondere una sensazione in una forma; come ha detto Pretty in un’intervista, il nostro è un sentimento, un modo di stare al mondo, una luce da cui guardarlo, prima che un collettivo. Questa nostra capitale ha più di tutte le città italiane il fascino, anzi la sindrome, della periferia: prendi Noyz, che nasce tra i Parioli e si rintana nei quartieri lontani dal centro, a fare della strada la madre della sua penna. Ancora, prendi la Serpentara per Gemitaiz e la Conca d’oro per Achille Lauro, oppure Tor Vergata per Pasolini: la linfa delle nostre corde è una linfa di strada.
Così per l’hip-hop: la prima ondata fu di figli di altolocati, figli di borghesi, Parioli, appunto; la seconda – quella autentica – è fatta di uomini duri, grossolani, concreti, ma enormemente profondi. Grezzi e veri, come ‘na gricia, come du’ bire, come la voce der Noyz. In ordine: l’Onda Rossa Posse (1987), i Cor veleno (1993), i Colle der Fomento (1994), il Truceklan (2003): le radici dell’hip-hop nostrano sono prodotti di questo modo romano d’essere e di sentire. Noi invece, quelli di ora, nasciamo sopra e dentro quest’anima: siamo quelli cresciuti con ‘In the panchine’, ‘La calda notte’, ‘Il cielo su Roma’. La mia città grande quanto grande il mondo / A volte mi ci perdo non la conosco fino in fondo / Eppure so quanto Roma capoccia è splendida al tramonto … Mi pare facesse così. Noi siamo quelli di poi, gli epigoni, la seconda (anzi, la terza) generazione: se il Turco, in Casilina love, può rappare “Combatto ancora come Enea”, noi possiamo dire di rappare con la sua stessa forza, che a sua volta fu di Enea. Affondiamo le radici in un suolo antichissimo, che periodicamente sboccia e prende forma in quello che un pischello come me sente, scrive e canta. Siamo quella quercia di Stay away che sradicata è rinata, siamo il passato dell’Urbe che si fa sempre di nuovo presente. Il rap romano è innanzitutto sentimento, è quella splendida fotografia che Frenetik e Orang3 hanno messo a copertina del loro ultimo lavoro. L’hip-hop può spostarsi a Milano, dove il tempo è dané, dove si procede a doppia velocità, dove non hai bisogno di due ore per arrivare da un capo all’altro della metropoli. Tuttavia, avrà sempre la sua anima e la sua radice in questa città, perché nessuna come lei ti insegna il valore del tempo, la vita della strada e le ragioni del cuore”.
Maurizio ringrazia: è soddisfatto e rinfrescato. Lascia gli amici e il S. Calisto, canticchiando tra sé e sé quella vecchia melodia: Fatece largo che passamo noi / Sti giovanotti de’ sta Roma bella / Semo ragazzi fatti cor pennello.
Di Marco Palombelli
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