L’idea che il rap sia una nuova forma poetica è una tesi azzardata. Infatti, ontologicamente parlando, il rap è ben differente dalla poesia tanto per finalità, quanto per mezzi e proprietà: come molti altri generi, è una musica caratterizzata da aspetti dialettici, recitativi, canori, ritmici e sonori che, tra voce e accompagnamento strumentale, si sovrappongono per concorrere alla costruzione della canzone; la poesia, invece, trova uno sviluppo e intende esaurirsi nella dimensione della pagina scritta.
Sarebbe tuttavia ancora più azzardato pensare che rap e poesia non abbiano niente a che spartire: grazie alla centralità conferita ai testi, questo genere musicale riesce ad assorbire con efficacia numerosi elementi poetici, combinandoli a un modo di raccontare quasi prosastico (se non fosse per la metrica).
Al di là delle innumerevoli figure retoriche che compaiono nei testi rap (vi sfido a trovare un brano in cui non ci sia almeno una similitudine aperta da «come»), un aspetto che scarsamente è messo in rilievo è la massiccia presenza di figure di suono: di solito passano inosservate, muovendosi nella zona grigia e indefinita che separa testo e beat.
Fino all’avvento della trap questi artifici fonosimbolici potevano sfuggire ai meno esperti (anche se da anni, specialmente Oltreoceano, avevano già raggiunto picchi di epicità straordinari); dopodiché il sottogenere di Atlanta, rallentando e “autotunnando” le rappate, ha schiaffato in faccia al grande pubblico i suoi skrrrt, bububu, sku sku, brrrr, we we, grrr-pow e via dicendo, creando un vero e proprio trend.
Infatti, queste onomatopee, espressioni “vuote” che, di fatto, non hanno un loro significato, ma suggeriscono acusticamente l’oggetto o l’azione che intendono significare, sono oramai quasi onnipresenti all’interno delle canzoni rap e rientrano tra i cosiddetti ad-libs (o, in italiano, “sporche”).
Il termine ad-lib è una contrazione in slang statunitense della locuzione latina ad libitum, formula esistente da secoli nel linguaggio musicale che significa letteralmente “a piacimento”: dunque gli ad-libs sono, per natura, personalizzabili in base alle preferenze e agli stili degli autori.
Le sporche sono divisibili in tre categorie: possono essere voice tags, vere e proprie firme di rapper («it’s Gucci» di Gucci Mane, «Push» di Pusha T, «Twentyone» di 21 Savage, o gli italiani «G-U-E» di Guè, «Emme» di Madman) o beatmaker (pensiamo al «Metro Boomin wants some more » di Metro Boomin o «yo, Pi’erre, you wanna come out here?» di P’ierre Bourne, ma anche ai nostrani «Sick Luke-Sick Luke» o «Greg Willen non dormire»); possono dare vita a brevi locuzioni (ad esempio gli iconici ad-libs «it’s lit» e «straight up» di Travis Scott), spesso contratte dallo slang (virale la sporca «eskere», ovvero «let’s get it», “facciamolo”); infine, ci sono le sporche su cui intendiamo soffermarci, ovvero le effettive onomatopee.
Questi fonosimboli non sono una novità per il mondo hip hop: abbiamo hit del passato come Sound of the police (1993) di KRS One in cui l’elemento trascinante del ritornello è la sincope sonora «woop-woop» che mima la sirena della polizia; nello stesso anno esce Clan in da front, leggendario banger del Wu-Tang Clan estratto dall’album Enter the Wu-Tang (36 Chambers), all’inizio del quale i rapper pronunciano più volte la sillaba «wu», da una parte ribadendo il nome del clan, dall’altra richiamando insieme all’ipnotico beat il ronzio di uno sciame di api (non a caso la canzone si apre con la frase «Wu tang killa bees, we on a swarm», che accosta i membri della crew a delle api assassine, la cui letalità è assicurata dall’unione); in My Name is (1999) di Eminem il «chika-chika Slim Shady» a imitazione dello scratch è stato determinante nella riuscita del brano, oggi un must del rapper di Detroit; inconfondibile è anche il ringhio carico di aggressività di DMX, biglietto da visita di hit del calibro di X gon give it to ya (2003), bonus track dell’album Grand Champ, la cui copertina è proprio un pitbull, cane in cui l’MC si identifica per fedeltà e pericolosità.
Inoltre, con produzioni più distese e flow meno ipertrofici, la trap ha messo molto in risalto le onomatopee, rendendole centrali nella narrazione del sottomondo criminale descritto dagli artisti.
Ad-libs come skrrt e sku-sku mimano l’acutissimo fischio delle frenate delle macchine da corsa. L’ambivalente brrrr allude sia a un brivido di freddo (che a sua volta rimarca la freddezza dei gioielli, che in slang sono ice, o la freschezza dello stile), che a una raffica di proiettili: a riproporre vocalmente il rumore delle armi da fuoco sono anche alcune sporche quasi fumettistiche come il phew-phew, rrrah, bububu, o grrr-pow, (senza andare lontano, pensiamo anche a Marracash che costruisce il micidiale attacco di 64 BARRE DI PAURA sull’onomatopea del mitra).
Lo splash, imitazione di un tuffo nell’acqua, si lega al concetto di drip, che letteralmente significa ‘sgocciolare’, come se l’ice, ancora una volta metafora di collane, bracciali e anelli, si stesse sciogliendo (molti artisti addirittura passano direttamente allo stato liquido e descrivono i loro beni preziosi con la parola water).
Tali onomatopee non solo divertono gli ascoltatori, ma contribuiscono tanto quanto le liriche a definire lo spaccato malfamato delle trap houses e l’annesso lifestyle esoso.
Rapper come Young Thug, Future, i Migos, Playboi Carti e Lil Uzi Vert hanno rivoluzionato il ruolo delle onomatopee, diventate da entità accessorie a tratti distintivi di una sorta di post-linguaggio: nei loro brani i vocaboli sono quasi obbligatoriamente accompagnati da corrispettive forme onomatopeiche e spesso questi elementi pregrammaticali assumono più rilevanza testuale delle parole di senso compiuto.
Questa rivoluzione simil-futurista ha ispirato innumerevoli artisti, da gamechangers come Kanye West (superate il primo minuto di Feel the Love o i primi due di Lift Yourself, poi ditemi voi) a esponenti dell’underground in voga negli States come Westside Gunn e gli altri artisti di Griselda, celebri per i powpowpow, brrrrrr e skrrrt accentuatissimi sui loro beats minimali.
Negli ultimi anni l’Italia ha ripreso molti ad-libs dall’estero, specialmente quelli onomatopeici, perché, a differenza di parole, slogan e locuzioni, non richiedono alcuna traduzione.
C’è da dire che abbiamo sperimentato anche noi: abbiamo visto il passaggio di fenomeni precocemente silurati come Mm ha ha ha di Young Signorino, singolo del 2018 quasi integralmente costituito da fonosimboli (propsato persino da Dua Lipa), fino ad artisti felicemente acclamati per la loro originalità come thasup, che ha portato le sue onomatopee vocalizzate a decine di milioni di streams.
Il critico letterario Gianfranco Contini scrisse a proposito dell’uso di onomatopee nella poesia di Giovanni Pascoli che «quando si usa un linguaggio normale, vuol dire che dell’universo si ha un’idea sicura e precisa, che si crede in un mondo certo […]. Le eccezioni alla norma significheranno allora che il rapporto fra l’io e il mondo in Pascoli è un rapporto critico, non è più un rapporto tradizionale».
Per quanto sia un discorso legato alla poesia, è calzante anche per il rap, solito a intersecare vari livelli linguistici nella narrazione.
Dunque, quando parliamo di questa musica, non limitiamoci a considerare solo il piano prettamente lirico, perché anche degli elementi pregrammaticali del testo, apparentemente ai limiti del senso, possono essere decisivi nel raggiungimento dell’obiettivo finale: descrivere criticamente le diverse sfaccettature che compongono la realtà.
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