‘O rap comme documento
Co’Sang – Poesia Cruda (Chi More Pe’ Mme, 2005)
L’odio comme ‘o meglio sentimento
Senza pentimento e fà ‘e bucchine ê benpensante
‘Sta robba segna ‘a dinto comme ‘o disco d”e Co’Sang
Affrontare “Chi More Pe’ Mme” è un’esperienza straniante, ancor di più nel 2024, ancor di più dopo che I Co’Sang hanno annunciato la reunion.
Riascoltando il disco e vedendo i videoclip su YouTube mi sono chiesto più volte cosa potessero ancora dare al rap italiano i Co’ Sang? Cosa ci può essere da raccontare oltre la poesia cruda di “Chi More Pe’ Mme”, la voglia di rivalsa di “Vita Bona”?
Domande che lasciano il tempo che trovano e a cui faccio fatica a rispondere senza cedere a macchinose elucubrazioni o al timore di una ben collaudata strategia di marketing (sigh). Ma torniamo a noi.
“Chi More Pe’ Mme” è un disco straniante, costringe l’ascoltatore a scontrarsi con l’asfalto e affrontare un mondo (nella gran parte dei casi) lontanissimo che non vive di bianco o di nero ma in un perenne grigio: bene e male insieme, sbagliato ma anche giusto.
Nonostante la grande fascinazione e la fortissima influenza subita, anche nella mia esperienza personale il primo disco di Ntò e Luchè è stata un’esperienza straniante che forse non ho mai compreso fino in fondo.
Da campano non napoletano, ascoltando “Chi More Pe’ Mme” da adolescente sento di aver vissuto il dramma del limbo: capivo lo slang del dialetto, empatizzavo i temi e le situazioni, ma l’ovvia impossibilità di rispecchiarmi dentro tessuto sociale raccontato nei testi di aveva su di me un effetto respingente.
Sì, forse perché a differenza di altri dichi gangsta i Co’ Sang non avevano niente di cinematografico o accattivante: le liriche crude, il dialetto grezzo, il lessico sporco e violento unito al racconto criminale della famigerata zona nord di Napoli di quegli anni creavano un’esperienza più autentica e tremendamente vera di tutte le trasposizioni di Gomorra messe insieme.
Capitolo a parte merita proprio l’uso specifico del dialetto. Il napoletano usato dai Co’ Sang è uno slang specifico, stretto e molto lontano dal napoletano moderno di Geolier, più pulito e italianizzato.
Luchè e Ntò con l’alternanza di suoni duri, dolci e aspri creano, con il loro dialetto, una ritmica “segreta” all’interno dei loro brani, il lessico aggressivo pieno di raggia (la rabbia) e malammore è fortemente espressivo e si presta bene come pennello per dipingere il contesto puro ma poetico della periferia Nord di Napoli. I Co’Sang parlano un napoletano chiusissimo che è perfettamente a metà tra la Famiglia e quello che verrà dopo, questo si vede benissimo in “O’Spuorc” con Lucariello.
I Co’ Sang sono stati un vero e proprio spartiacque all’interno della scena rap italiana, ma ancor di più nel microcosmo del rap napoletano dove l’hip hop si era fatto strada, quasi unicamente, attraverso i centri sociali e le posse.
Nto e Luchè si distaccavano dall’attivismo di piazza dei 99 posse e al tempo stesso superavano i gruppi di rapper tecnici come La Famiglia e i 13 Bastardi ponendosi come rappresentanti di una nuova generazione di rapper influenzati nelle melodie dall’East Coast Americana, ma nel nucleo erano presenti i gorgoglii delle strade di Marianella e Secondigliano.
In fondo, come vi ho già raccontato il Bronx (New York) e Secondigliano (Napoli) sono legate sempre da quel famoso 41° parallelo e così le esperienze di rapper come Ntò, Luchè, O’ Iank o Lucariello sono legate a doppio nodo con quelle di rapper più blasonati come Nas o Biggie.
In bilico tra Napoli e l’America, i Co’ Sang vivevano in una dimensione glocal. Ntò e Luchè erano napoletani, rappavano in napoletano, raccontavano una realtà fortemente localizzata come quella napoletana, ma avevano qualcosa di incredibilmente internazionale. Il napoletano dei Co’ Sang smette di essere dialetto di una città o di una provincia e si afferma come lingua franca, al pari dell’inglese, per chi ascoltava rap in quegli anni.
Approcciarsi a “Chi More Pe’ Mme” era come approcciarsi a “Illmatic”, non era importante capire il testo, la forza dei Co’ Sang era tale da superare la barriera linguistica permettendoti di identificarti in quella storia perché era di tutti, pur essendo solo di qualcuno. Luchè e Ntò volevano rimanere napoletani ed essere tutto il mondo contemporaneamente.
La spinta glocal muove i Co’ Sang verso sonorità internazionali ma pur sempre di stampo Hip Hop. Ne è un esempio “Try Me“, tra i pezzi cardine dell’intero disco. In un album linguisticamente e contenutisticamente violento come “Chi More Pe’ Mme” nessuno si sarebbe mai aspettato un pezzo come “Try Me” che è un pezzo d’amore. Eppure, qui il sentimento amoroso è completamente rifunzionalizzato all’interno della loro poetica della strada, la visione dell’amore è sempre filtrato attraverso il crudo neorealismo dei Co’ Sang.
In “Try Me” a fare la differenza è Elementree, featuring interessantissimo, che colora il ritornello con una forte pennellata blues donando al brano proprio l’identità glocal di cui parlavo sopra. Ma la spinta verso il blues e altri generi black è preponderante in tutte le produzioni di Luchè e O’ Red, anzi, non tutti sanno che, tra i sample e le produzioni di stampo East Coast, il disco è arrangiato da Carlo Avitabile, abilissimo musicista e fratello di Enzo Avitabile.
Nel suo clima violento e autentico, “Chi More Pe’ Mme”, come Gomorra un anno prima Saviano, racconta profeticamente quello che sarebbe successo con le faide dal 2005 in poi. In anni dove i media tradizionali snobbavano totalmente l’argomento e internet viveva ancora una fase embrionale, I Co’ Sang riprendevano l’asfalto portando le storie di quell’assurda quotidianità a un pubblico più ampio prima di qualsiasi Tg.
Ma il modo di raccontare del duo va oltre la banale e impersonale ripresa di un servizio televisivo:
dice Ntò nella primissima intervista ai Co’Sang (che consiglio di recuperare), fatta proprio da Roberto Saviano per Repubblica.
‘E frate mi’ s”o fummanno ancora e dint’ê frase noste ‘a rivoluzione
Co’Sang – Int’o Rione (Chi More Pe’ Mme, 2005)
Chisto è ‘o suono nuovo, ‘o ssaje ch’è malammore
Per cercare di capire il clima dei Co’ Sang basta dare un’occhiata alla tracklist, già solo i titoli parlano, brevi frasi in dialetto e a denti stretti: “Chello Ca Veco”, “Niente a Vede Cu li Ati”, “Fuje Tanno”, “Pe’ chi Nun Crere”. Ma l’inno manifesto è “Int’ o Rione”, traccia culto e forse, troppe volte ingiustamente abusata.
Si potrebbe parlare del banger in sé, del contenuto lirico o di Luchè che campiona “Il meraviglioso mondo di Ameliè” e invece no. La poetica di questa traccia è racchiusa nel videoclip o, meglio, un “video-documentary” come si legge nella descrizione sul canale YouTube dei Co’ Sang.
Un girato in bassa qualità, in quel bianco e nero simil “La Haine” che ricorda il grigio di cui vi parlavo sopra, racconta all’essenza cosa siano i Co’ Sang. Le varsity Jacket e il campo di basket ci portano a New York, ma i pachidermi in cemento armato e i mezzi che impennano nel Far West urbano subito ci riportano al meridiano giusto, quello della zona nord di Napoli.
Poi ancora: soldi che, per evitare la retata, vengono lanciati dalla finestra perdendo il potere che hanno per antonomasia e diventano carta straccia, la grande simbologia religiosa tra le bare tatuate, le croci e “Gesù è la via” che si fonde alle immagini e alla gestualità della malavita creando un’unione illegittima tra il sacro e il profano.
Passa p”o cazzo d”e classifiche, d”e sbirre
Co’Sang – Intro (Chi More Pe’ Mme, 2005)
D”e tossiche razziste comme Vasco Rossi (Ah-ah) (Lota)
‘E scoppio ‘ncuollo, po pareo
Papà nun sta ‘int’a ll’assemblea d”a Società Italiana Autori Editori (SIAE)
Fa ‘o dito medio ‘a ‘int’ê fotografie
Seguendo la tracklist, Luchè e Ntò nell’intro fin da subito si dichiarano essere antirapper, un’alternativa alla società borghese italiana di quegli anni ma anche al mercato musicale, i Co’ sang sono realmente l’antisistema in un microcosmo dominato dal “sistema”.
Tema fondamentale è quello della vista: come ho già detto, i Co’Sang non fanno cinema ma “fotografano cu ll’uocchie ‘e cose crude”, attraverso gli occhi riprendono la strada in presa diretta senza tagli, una realtà che lascia ben poco all’immaginazione. Per raccontare certe cose bisogna averle viste, scrutate e analizzate attraverso il paradigma degli occhi.
“Addò stanno ‘sti ccose ‘int’a ll’uocchie ‘e ll’artiste italiane, Antò?” chiede Luchè sconsolato in “Quello ca Veco” traccia emblematica fin dal titolo stesso per descrivere l’importanza della vista in “Chi More pe Mme”. In un paese non vedente, Antonio e Luca vedono costringono a vedere ma soprattutto parlano.
La voglia di raccontare certe cose, situazioni, anche un gesto apparentemente insignificante nasce tutto da quel punto di vista perennemente asfaltocentrico: “Dimme che pozzo fà si tengo ll’uocchie ‘nfronte Collegate â lengua ca nun offende, ‘a menta pronta.”
Però ancora na vota nn’me ne faccio proprio
Co’Sang – Chi More Pe’ Mme (Chi More Pe’ Mme, 2005)
Pecché aggi”a registrà, aggi”a dicere, aggi”a parlà
Aggi”a dicere coccosa, chello che sento, chello che veco
‘A raggia, ‘a raggia che tengo ‘a caccio ‘a fore, siente
Siente mo
Eppure, tra pezzi troppo densi per essere raccontati in un articolo da sito, come “Povere Mmano” che riporta il dramma delle vittime innocenti della faida uccise per scambio di persona, emerge la voglia di scrostarsi via la merda e l’asfalto di dosso e cambiare vita (tema principale di “Vita Bona”), come nel ritornello della title-track “Chi More Pe’ Mme”: “Voglio girà ‘o munno Ch”e piede o ch”e parole toje? Vedé chi more pe’mmé” ripreso anche nella copertina del disco.
Luchè e Ntò scrivono canzoni come Pasolini gira i film, utilizzano una scrittura a montaggio dove vengono incastrate scene dopo scene, situazioni dopo situazioni anche a grandi pennellate. “Pomeriggio Pigro” è un esempio lampante di questo tipo di scrittura poetica.
Ma ormai dovreste saperlo, “Chi More Pe’ Mme” va oltre la musica e dove il rap non arriva a descrivere la realtà arrivano gli skit. “Buonanotte” pt1 e pt2 sono “le due perle del disco”.
Accompagnati da una strumentale, contengono le telefonate che i familiari dei carcerati fanno a una Radio per salutare i loro cari in carcere a Poggioreale e Santa Maria Capua Venere. Sono i documenti più sinceri dello spaccato sociale in cui era immerso il rap dei Co’ Sang. Le parole dello speaker dovevano rimbombare nei bracci del carcere, dove non filtra la musica e rimane la sofferenza (per quanto criminale) poetica che martella i pensieri «Buonanotte è un messaggio di bene», dice ’Ntò sempre nell’intervista a Repubblica.
“Chi More Pe’ Mme” è il desiderio di scoprire chi davvero morirebbe per noi, un mantra scolpito nella mente di una generazione, un tempio da non profanare. Sboccia dal sangue che impregna l’asfalto, tra le bottiglie usate per il crack, le siringhe per l’eroina. Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori.
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