Con Dark Times, Long Beach, California, si trasforma in una landa spettrale, buia, una di quelle cicatrici che corrodono e che non hai il coraggio di scrostare; l’armadio da cui gli scheletri di una vita evadono per cacciarti.
A dieci anni dal suo debutto, Vince Staples pubblica il suo ultimo album con Def Jam, terzo atto di un filone narrativo partito con “Vince Staples”, progetto omonimo pubblicato nel 2021, ma che racchiude un’evoluzione decennale che vede in questa ultima uscita il suo epilogo.
La West-Coast non contava su rappresentanti del calibro di Vince da un po’, un rapper dal bagaglio estremamente profondo che ha dimostrato negli anni una costanza e una freschezza fuori dal comune. Da “Shyne Coldchain Vol.2” fino agli ultimi progetti, Long Beach e Ramona Park sono sempre stati al centro di ogni rima, il riferimento costante di un artista che deve tutto alla propria città.
Le storie che da membro dei Crips, Vince racconta, non hanno mai lasciato il perimetro segnato dall’ Artesia Boulevard (zone 9) e Cherry Avenue (zone 2), estremità di una delle zone più pericolose in tutta la California
Il sound violento e crunk che segnava la sua discografia agli albori si è col tempo allegerito, pur sempre aprendosi a nuove sperimentazioni di melodie e tonalità; il tutto, segno di una maturità musicale che va a braccetto con la profonda rinascita emotiva che trasuda dai testi degli ultimi album.
L’aggressività che tracce come Norf Norf o Hands Up mostrano sono la prova dell’agognato riscatto che un Vince appena ventenne pretendeva, per poi evolvere in una forma più pacata, ma non per questo meno nichilista, e.g. quella di tracce come: Take Me Home e East Point Prayer.
Ormai al picco della sua carriera, che lui stesso ha cercato in ogni momento di tenere lontana da statiche etichette, è riuscito ultimamente a spaziare verso altre dimensioni. Una tra tutte quella dello spettacolo, pubblicando con Netflix il “Vince Staples Show”: una serie televisiva che con una manciata di episodi racconta con distorta comicità, la sua Long Beach, Ramona Park e il difficile rapporto tra la strabordante fama raggiunta e ciò che fino a quel momento era stato per lui paradiso ed inferno, comfort e dramma.
“An undisclosed amount from Netflix, invest it
Vince Staples – Freeman (Dark Times, 2024)
I turned the set into a movie set for all of the kids
To see who you can be if you believe you’re bigger than this
Don’t be no crab in the bucket, be a Crip at the Ritz”
Dark Times è un album, come dichiarato nell’ultima intervista con Zane Lowe, che arriva dalla voglia di condensare tutto quello che è accaduto nell’ultimo periodo, dall’uscita di “Ramona Park Broke My Heart” fino allo show: “I just said why not makin’ it, kinda incapsulate this time period so to say[..] it was a “why not” situation”. Presupposti che non devono ingannare.
Il disco non è affatto un prodotto superficiale, un rigurgito dovuto alle lagne della casa discografica di turno. La cura che Vince dimostra nella creazione di un ritratto così reale, quasi vivibile, dei luoghi e delle storie che lo hanno incrociato è una costante per l’intero progetto (così come per la sua carriera), la cui lunghezza (solo 35 minuti) rende ancor più fruibile l’incubo lucido all’interno del quale ci trasporta.
Quello che cattura è il legame sanguigno che trasuda dalle immagini proiettate nella mente di chi ascolta. Vince non suona mai ripetitivo, la sua musica e i temi trattati non aspirano a regalare immaginari di agio, di serenità; a segnare perennemente la memoria dell’ascoltatore sono i continui riferimenti a familiari, luoghi e persone care, ormai tutti sbiaditi dal trauma che “the city where the skinny carry strong heat” ha provocato.
Ascoltare Dark Times d’un fiato rende l’esperienza ancora più immersiva, il tutto condito da sonorità sempre in divenire. L’intro onirico che vede il suo fragile equilibro disintegrato dalle batterie di Black&Blue che suonano come proiettili segnanti il ticchettio del tempo, la chitarra scordata e ipnotizzante in Children’s Song , i cori pastorali che lanciano verso l’alto rompendo il contatto con la terra, sono tutti elementi che elevano l’estrema ecletticità di Vince permettendogli di dispiegare il variegato ventaglio di flow di cui dispone.
Da non dimenticare le voci che stabiliscono la fine e l’inizio di ogni fase di questo malinconico e scivoloso incubo ad occhi aperti. Durante questa lucida fase REM, Vince fa avvertire come dubbi esistenziali sul valore delle relazioni e la sincerità stiano lentamente lacerandogli le carni, spingendolo verso una spasmodica ricerca della verità che non fa altro che sballottolarlo ovunque, come pupille che, nel profondo della notte, continuano freneticamente a sbattere da lato a lato.
Shame on the Devil, singolo con il quale l’album era stato annunciato, racchiude alla perfezione l’essenza di Dark Times. Una strumentale melmosa, dalle note appiccicate, fa da altare ad una confessione che sa di preghiera disperata, quella con cui si chiede perdono per essere caduti troppo spesso nella trappola della rabbia, della menzogna perdendo così la propria strada. Una ninna nanna che apre le porte ad un inferno le cui fiamme sono soffocate dalla paura:
“I long for lovin’ and affection
Vince Staples – Shame On The Devil (Dark Times,2024)
These hoes ain’t what I need, I need direction
Don’t leave me, please, swear I learned my lesson
But, I still chase thrills, I’m imperfected
I don’t want to talk on the phone, leave me a message”
La voce anestetizzata, quasi addormentata in tracce come Government Cheese sembra quella di chi con le ultime manciate di ossigeno prova a ripercorrere un passato traumatico, alla folle ricerca di un momento da celebrare e portare via con sè. Le parole, alle volte quasi trascinate, balbettate, suonano come gemiti liquidi, bolle velenose di un calderone fatto di fama, denaro ed innocui ricordi di un luogo familiare ma caustico:
“See, it’s hard to sleep when you the only one livin’ the dream
Vince Staples – Government Cheese (Dark Times, 2024)
Hard to leave niggas hangin’ when you the money tree
Somethin’ about the gutter that make us hate each other
Had to bury my older brother, it humbled me”
Tracce come Étouffée e Freeman invece, segnano momenti di luce in cui Vince riflette sul successo raggiunto e le conseguenti opportunità, così da poter restituire alla sua città e alla sua gente quanto di lui hanno fatto.
“Only Heaven knows whichever way I blow in the breeze
Vince Staples – Freeman (Dark Times, 2024)
I’ll be a fool to think it’s left up to me
But I appreciate the love, loved one, still young
They tryna figure out the ins and outs of where we from
Heal the blocks that we spun, the concrete crack
Heavy steppin’ niggas won’t get back, right?”
Arrivati alla fine, il disco sembra mutare, giungendo ad una forma definitiva, che ha più senso, che ha attraversato vari stadi emotivi e per questo si fa completo. La materia nera trattata da Vince è simile ad un buco cosmico all’interno del quale però lui sembra navigare con controllo, a tratti dando l’impressione di essere incapace di muoversi solo all’infuori di esso. Il disagio che trasmette deriva dallo scontro tra due dimensioni in cui la sua persona si estende, al punto da appiattirsi e sembrare irriconoscibile agli occhi di chi lo conosce per la sua musica, così come agli occhi di chi, come lui, naviga da sempre nel buio.
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