Recensione di Faith
Ore 6.00 di venerdì 16 luglio, anche in Italia viene pubblicato su Spotify “Faith”, disco postumo del compianto Pop Smoke, colui che ha portato alla ribalta la drill, grazie a pezzi come “Dior”. Come tutti sappiamo, i dischi postumi sono sempre una scommessa: la buona riuscita del progetto non dipende dalla bravura dell’artista, ma da quanto materiale esso ha lasciato al momento della sua dipartita. Spetta al team del defunto il processo di completamento del progetto e la selezione degli ospiti che andranno a riempire le tracce incomplete. È soprattutto compito della squadra sopperire al fatto che questo materiale è per lo più composto da bozze e provini: gran parte di questi brani devono passare attraverso un’accurata scelta di beat, una fase di mixaggio e di master, prima di divenire vere e proprie canzoni.
Per quanto riguarda Faith ci accorgiamo subito, guardando la tracklist, della massiccia presenza di ospiti, anche di alto livello, come Kanye West, Dua Lipa, Pusha T, Kid Cudi, per citarne alcuni. Non mi soffermerò sui testi perché, come detto in precedenza, stiamo parlando di materiale musicale ancora grezzo. Non possiamo sapere se Pop considerasse queste strofe pubblicabili o da cestinare. Il disco scorre sicuramente bene, con una buona varietà di generi e sfumature musicali che lo rendono leggero. Faith non è il disco interamente drill che qualche suo fan di vecchia data avrebbe potuto sperare, nonostante il sottogenere della trap sia ben presente nel lavoro. I featuring sono stati scelti con cura: quasi tutti sono riusciti nel compito non facile di completare quanto lasciato dal rapper newyorkese. Anche i produttori convocati hanno fatto un ottimo lavoro nel cucire su misura delle strumentali che permettessero alla voce di Pop di fare la più bella figura possibile.
Ma per ogni medaglia ci sono due facce. In questo caso il grosso limite di Faith è che alcuni dei provini erano forse troppo incompleti per essere utilizzati, facendo in modo che, in alcune tracce, la presenza di Pop Smoke sia davvero limitata. Inoltre, il fatto che i produttori abbiano avuto la possibilità di lavorare solo con gli ospiti, ma non con l’artista principale, ha reso alcune canzoni musicalmente lontane dallo stile del rapper newyorkese, nonostante in un lavoro postumo, quest’ultimo dovrebbe esserne protagonista. Ed è per questo che “What’s Crackin” ft. Takeoff suoni più come un pezzo dei Migos che di Pop; così come “Woo Baby” ft. Chris Brown e “Demeanor” ft. Dua Lipa, brani che, per quanto tengano alta l’asticella del progetto, si allontanano dalla cifra stilistica del “padrone di casa”. Ancora una volta l’esperienza non si è fatta maestra: lo stesso problema già traspariva nella deluxe di “Shoot For The Stars Aim For The Moon”, in cui “Backseat” con PnB Rock vede un Pop Smoke talmente assente, da farlo sembrare ospite nel suo stesso brano.
Alla luce di questo discorso, la domanda è: ha senso un disco postumo come “Faith”? Per quanto mi riguarda assolutamente sì: non sarebbe giusto lasciare che il lavoro di un artista tanto acclamato a livello mondiale, finisca nel dimenticatoio. Sia per rispetto dell’artista stesso, che ha speso l’ultimo tempo della sua vita a produrlo; che per i suoi fan, essendo queste le ultime tracce che potranno conservare di un rapper che hanno amato e che continueranno ad amare, nonostante tutto.
Rest in peace Pop, legends never die.
Di Simone Molina
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