Discutere di “MAYA”, l’ultimo disco di Mace, non è un’impresa semplice e immediata, così com’è sempre stato per un qualsiasi progetto del produttore milanese: per comprendere pienamente la sua musica bisognerebbe vivere, con la sua testa, ogni aspetto fonico decisivo in maniera profonda e viscerale.
Solo analizzando e spolpando tutto ciò che concerne l’ispirazione, le influenze, lo sviluppo e le fondamenta logiche alla base del concept del progetto stesso, si può arrivare all’essenza, scavalcare l’apparenza che inevitabilmente conduce alla superficialità.
Di seguito, perciò, cercheremo di analizzare “MAYA” e ciò che rende Mace un producer unico nella scena musicale italiana (e non solo nel rap).
Per entrare nel disco però necessitiamo di ricordare due definizioni imprescindibili: nella nostra cassetta degli attrezzi abbiamo bisogno della definizione della parola “MAYA” e del concetto filosofico de “IL VELO DI MAYA”.
Iniziamo dalla prima. Per quanto riguarda la parola “Maya”, a questa si attribuisce il significato di “creazione” e del potere creativo che sprigiona nei cuori e nelle menti degli esseri umani. Nonostante ciò, nel corso della storia, la parola si è legata sempre di più al campo semantico del misticismo, dell’illusione, di una divinità ancestrale che fa fiorire la realtà davanti agli occhi degli adepti, nascondendone il vero senso.
È proprio su questa ideologia di illusione che molti filosofi del XX secolo hanno basato le loro tesi e i loro testi, primo fra tutti Arthur Schopenhauer. Alla base del sistema filosofico del pensatore germanico c’è l’idea del “Velo di Maya”: l’uomo vaga inconsapevole nel reale, credendo che tutto ciò che gli capita sotto i sensi, sia inequivocabilmente vero e perfettamente conoscibile. In realtà tra il soggetto e la verità, secondo il filosofo, si frappone un velo, una patina impalpabile che avvolge la realtà fenomenica, celando inevitabilmente l’essenza di ogni esperienza.
Gli unici strumenti che il soggetto possiede per trovare il buco nella trappola illusoria della realtà e arrivare all’essenza di ogni esperienza sono tre: l’ascesi, l’etica e infine la creazione artista, il genio.
Già nella copertina di Maya, l’idea di saltare di oltrepassare sembra centrale: nello scatto della cover Mace viene raffigurato mentre attraversa, o meglio sprofonda, in specie di dimensione a specchio. Sembra quasi che il producer voglia darci una possibile via di fuga da questa finta realtà in cui viviamo, fornendoci la sua personale via di salvezza da ciò che ci circonda.
La genesi stessa del disco ha qualcosa di salvifico. In diverse dichiarazioni Mace ha raccontato che per strutturare il suo secondo progetto da direttore di orchestra, abbia affittato uno studio immerso nelle campagne toscane, un’oasi slegata dai canonici luoghi “urbani” della produzione musicale odierna (la vera realtà oltre il velo?).
In questo casolare il produttore avrebbe radunato 15 strumentisti, insieme ad alcuni degli artisti più vicini a lui (Gemitaiz, Izi, Joan Thiele e Venerus) per creare, in una simbiosi quotidiana durata mesi, un progetto che si distaccasse nettamente dalla fordista catena di montaggio dell’industria discografica: Mace ha aperto uno squarcio nel reale e li ha fatto fiorire la sua idea di arte.
“MAYA” è stato realizzato (e si percepisce) per un puro e reale amore per la musica tutta. Molte delle sue derivazioni, le quali hanno da sempre caratterizzato ed ispirato la musica di Mace, sono palpabili: rap, elettronica, psichedelica, dance, rap, RnB si fondono in un caleidoscopio di voci, colori, sensazioni e stili che, pur diversissimi, si radicano in un terreno comune.
Nel disco non sono solo i generi a suonare, ma anche gli strumenti: “MAYA” brilla di musica suonata insieme, dal vivo, con mezzi non canonici, in un tripudio di strumenti musicali etnici, orientali e africani, suoni tribali nelle mani di uno sciamano. Grazie a questa visione e a questa diversità di generi Mace concede alla musica e alle produzioni lo spazio di maggior rilevanza all’interno del progetto, il che rende le strofe degli artisti ospiti quasi secondarie, ma allo stesso tempo indispensabili al fine di creare un’atmosfera unica e coinvolgente per ogni traccia.
“MAYA” vuole rappresentare un viaggio introspettivo e personale per ognuno di noi, rendendoci partecipi di una visione musicale altrettanto personale e stratificata.
Non è un caso che l’idea del cammino verso la salvezza apra il disco “VIAGGIO CONTRO LA PAURA”, l’intro, ci restituisce una delicatissima e intima Joan Thiele, che quasi sussurra alle orecchie di chi ascolta la sua personale lotta contro il terrore.
Già ai tempi di “OBE“, Mace aveva a più riprese sottolineato la centralità dell’utilizzo di sostanze psicotrope nel processo creativo, unica guida verso una percezione aumentata, e per questo più autentica, di sé e dell’intorno; “MAYA” riprende questo filone esperienziale, conducendo l’ascoltatore in un universo sinuoso, di suoni e curve che conduco all’essenza. L’ascesi musicale di Mace buca il velo, l’arte conduce noi tutti oltre le parvenze illusorie.
Circa le collaborazioni Mace ci propone sia accoppiamenti inediti di artisti, anche spaziano dai rapper ai cantanti più pop o indie, sia featuring ormai consolidati. Nonostante il numero esorbitante di artisti presenti però, una peculiarità degna di nota – per nulla scontata nei progetti degli ultimi anni – è la scelta di molti artisti emergenti, (o quantomeno molto) meno blasonati di tanti altri nomi ai quali il producer avrebbe potuto attingere.
Si creano così degli abbinamenti di rilievo, a partire dalla traccia “PRAISE THE LORD”, forse il pezzo più street del disco, dove contiamo la presenza di due mostri sacri della vecchia scuola, Guè e Noyz Narcos, assieme a Tony Boy, attuale rappresentate del movimento trap giovanile; o altrettanto inusuale incontro tra rap, r’n’b e pop nella traccia “FUOCO DI PAGLIA”, in collaborazione con Gemitaiz, Frah Quintale e Marco Mengoni.
Ad Altea viene affidata interamente “SOLO UN UOMO”, Iago sigla il ritornello di “NUOVO ME”, circondato da due ormai “ritornellari”, Rkomi e Bresh. A Centomilacarie, presente in due tracce del disco, viene addirittura affidato il compito di completare il lead single del progetto, “NON MI RICONOSCO”, con Salmo.
Insomma, Mace inverte le gerarchie e mette al centro i nuovi arrivati del mercato musicale italiano: la musica vince, muore la logica di mercato. Queste scelte di artisti all’interno del disco promuovono una sorta di sperimentazione a cui, molti fruitori della musica odierna (ed in particolare nel rap), non sono più abituati, o addirittura non lo sono mai stati.
Il suono si distorce in “DESERTO STRANO” dove Cosmo e Rais cavalcano un’elettronica che grida Fantasia; l’anima di Kid Yugi si avvolge attorno alle sillabe delle liriche di “TUTTO FUORI CONTROLLO” condita dal dolcissimo ritornello di Franco126; e Venerus si mostra pattinatore di classe sulla base etnica di “OSSIGENO”, che lo vede assoluto protagonista. Come OBE anche Maya si chiude con un brano totalmente strumentale, non a caso intitolato “IL VELO DI MAYA”, la firma del direttore di un orchestra tribale, in cui tutti sono uno e tanti contemporaneamente.
Mace, con un album della durata di 66 minuti, si riconferma perciò un unicum nel panorama musicale, con un progetto che traccia un ulteriore segno nella propria evoluzione artistica-musicale: è una linea guidata ben delineata, conosciuta ma mai scontata. “MAYA” è il superamento di un appiattimento dove tutto è grigio, lo squarcio nella rete dell’omologazione: la musica reale è l’unica ostia per arrivare alla verità, e Mace è l’unico sacerdote possibile.
Con la collaborazione di Francesco Palumbo.
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