Don Said è quel tipo di rapper che non vedi sponsorizzato nelle storie di Instagram ma che speri, in qualche modo, che possa arrivare il prima possibile tra i grandi.
Il grande stigma che portano con sé gran parte degli emergenti è la mancanza di fiducia che gli ascoltatori abituati ai grandi nomi sono insoliti dare e non solo; ciò che spesso fa sentire in difetto chi punta sugli emergenti è il non vedersi riconosciuta l’argutezza di aver intercettato un nome prima che questo diventi grande, proprio come un dirigente sportivo di una squadra di calcio che, dopo aver scommesso su un giovane talento della primavera, si vede portare via il suo pupillo dal grande pubblico senza riconoscergli il merito di averci creduto quando nessuno lo faceva.
Voglio essere quell’osservatore lungimirante, voglio assumermi tutte le responsabilità di dire che Don Said ha tutto quello che un emergente dovrebbe avere per fare il botto e il suo primo disco ufficiale, “Pain Party”, lo dimostra pienamente.
Il filo rosso che regge in piedi tutto il disco è il concept ossimorico di “pain”, dolore e “party”, festa, due elementi fortemente contrastivi funzionali a tirare un primo bilancio della vita del classe 99, in particolare dell’ultimo anno e mezzo, in cui il rapper ha cercato in ogni modo di fuggire dalla sua sofferenza. Se il dolore ci fa chiudere in noi stessi, le feste ci aprono violentemente al pubblico: immaginiamoli come due cavalli, uno bianco e uno nero che, legati all’artista, corrono in due direzioni opposte fino a spezzare, letteralmente, l’individuo. Questo, grosso modo, è l’immaginario tetro ma curato, a tinte grigie e nere, che Don Said ci tiene a riprodurre.
L’intro “Corri e Impazzisci”, con una base che rievoca una trance psicotica, ci cala subito negli scenari mentali del giovane rapper catanese e ci fa capire che tipologia di artista abbiamo davanti.
Le scenografie horrorcore di Noyz Narcos e la sofisticata ignoranza di Guè si incontrano e trovano terreno fertile in un artista che dimostra, già dai primi versi, di aver mangiato e digerito in gran quantità la tradizione precedente. Brani come “Asfalto”, “Laser”, o soprattutto come “Funny Games” (ispirata dall’omonimo film e prodotta da Pherro) in cui cita apertamente il 64 Bars di Guè, permettono all’ascoltatore di recepire il background musicale dell’artista ma, ancor di più, permettono di capire come Don Said sia stato in grado di afferrare il testimone dello stile installato dai Dogo, quello di mischiare l’amore per le firme alle situazioni liminali di strada, senza però perdere la sua matrice d’appartenenza siciliana.
A differenza di molti rapper emigrati al nord per fare musica, Don Said, nonostante l’assorbimento degli stilemi tipicamente milanesi, sceglie di mantenere vive nelle sue rime la sua terra natia e, di conseguenza, la sua identità: l’inflessione vocale tipicamente siciliana , la sua prosodia (vedi “Esagerati” e la pronuncia del vocabolo), i riferimenti topografici conosciuti collettivamente ma familiari solo agli abitanti di Catania (“vulcano nel mio sangue pompa lava”, “caffè corretto”, “ci chiamiamo sempre vita”, ) e le espressioni capaci di legare il suo vissuto e le sue passioni, come nel caso di “uomini di mare perché siamo catanesi”, in cui, in un colpo solo, cita lo storico gruppo di Fabri Fibra e una caratteristica locale catanese. Sono questi i punti di forza che candidano il rapper a essere un next big thing: il non rinunciare al tecnicismo e alla sonorità trovando un compromesso, situare lì il punto di scrittura iniziale calandolo nel solco di una tradizione rap conosciuta di cui vorrebbe ergersi a portabandiera aggiungendo però la sua identità, la sua personalissima firma.
La scelta dei featuring in Pain Party mette in rilievo la forte componente Hip Hop che muove tutto il progetto: oltre all’apprezzamento dell’artista nei confronti dei collaboratori, emerge il rispetto umano e la condivisione concreta di esperienze e rapporti. I 2 Rari, con cui ha condiviso la casa per una settimana per la realizzazione del brano, Enzo Benz, Don Pero (con cui ha realizzato “Piccoli”, uno dei brani più personali dell’album), GDP e Fely (amico di lunga data dell’artista catanese che ha una carriera musicale a Santo Domingo) sono tutti corregionali, Sgribaz, che a sua volta lo ha ospitato nel suo progetto, Lil Kapow, artista americano con cui ha dovuto mantenere un lungo scambio di messaggi complicato dal fuso orario. Gli artisti chiamati a collaborare sono nuove meteore del rap italiano che si ritrovano vicendevolmente nei progetti, che si supportano creando un’alleanza, un sodalizio capace di porre le basi per la realizzazione di una nuova scena, unita e compatta negli intenti.
Don Said è il “ragazzo della piazza” dei Dogo che si sa comportare, capace di mettere in relazione le situazioni cittadine con quelle metropolitane, avendo sempre, come dice più volte nel disco, “la testa sulle spalle”; l’artista si fa interprete cosciente delle istanze caratteristiche della Gen Z in dialogo con sé stessa, con il suo vissuto, ambigua nel vivere il rapporto con i propri ambienti familiari, capace di parlare liberamente di psicoterapia, delle proprie difficoltà relazionali con le proprie emozioni, con le sostanze, narratrice di “cronache di vuoto” e infinita ricercatrice di affetti stabili certi che, citando insieme Ted Mosby in “How I Meet Your Mother” e a sua volta il Don, “dopo le due non succede mai nulla di buono”.
“Pain Party” è un disco sicuro, non presuntuoso, proteso verso l’alto ma ben ancorato a terra e intento a posizionare un primo importante tassello della sua carriera, capace di comunicarci quanto il Don ami rappare, di quanto si diverta nel farlo, tanto da trasformarlo in una festa delirante.
E diciamocelo, trovare oggi un emergente con questa stessa passione per il rap, oggi non è così banale.
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