Recensione di Tickets to my Downfall
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Qualche tempo fa, il rapper statunitense Machine Gun Kelly, annuncia il suo allontanamento dal Rap per migrare verso il Punk Rock e, identificandosi involontariamente come uno dei pilastri della fantomatica terza punk wave, annuncia il suo primo disco Punk: “Tickets to my Downfall“.
Ma prima di parlare del progetto in se, facciamo un pò di storia e analizziamo un fenomeno.ù
In una traccia, anteporre una frase, un gesto, una considerazione o una qualunque altra cosa che possa far contrasto con la canzone, è, da un punto di vista radiofonico, un suicidio. I DJ dovrebbero preoccuparsi, per non spezzare il ritmo nella trasmissione, di far partire la traccia già avviata, così da bypassare l’interferenza, operazione oggi veloce da fare, ma estremamente complessa prima dell’avvento del digitale.
Ogni gruppo o cantante evitava quindi questa particolarità nei propri dischi, ma non tutti volevano sottostare alle autorità delle radio, soprattutto i gruppi come i Ramones, i Sex Pistols, i Death Kennedy e molti altri, andavano contro questo sistema. Se un suono esterno all’inizio della canzone poteva tarpare le ali al successo commerciale del pezzo, tanto valeva dare il peggio di sé in quei pochi secondi, ed ecco che innumerevoli canzoni si aprono con sputi, rutti, frasi incomprensibili, tiri di sigaretta e molto altro. La censura li avrebbe comunque colpiti e questo non faceva altro che alimentare la voglia di provocare questi colpi.
Quest’usanza sarà ristretta alla prima Punk Wave degli anni settanta, alla seconda Punk Wave nella seconda metà degli anni novanta e dei primi del duemila.
Facciamo un salto nel futuro e torniamo a Machine Gun Kelly: qual’è la situazione? Nel 2020, “Tickets to my Downfall”, interamente coprodotto con una leggenda della Seconda Wave come Travis Barker, batterista dei Blink-182, è uscito da poco e a mio parere, è probabilmente una delle cose migliori successe alla musica quest’anno.
Tickets to my Downfall suona esattamente come deve suonare, un disco del ’98 ma uscito nel 2020, che non sembra né vecchio né nostalgico, semplicemente prende una cosa vecchia e la adatta ai giorni nostri senza snaturarla neanche un po’.
Il disco non si chiude però nel 90s Punk, ma anzi spazia verso il rock anni ottanta e il pop di inizio anni dieci senza scordare la matrice rap d’origine, confenzionando quindi un disco completo, dove le hit più commerciali e le ballade si alternano con tracce più rapide, violente, creando una commistione di generi che non stonano tra loro, ma anzi, si fondono ponendo delle ottime basi per chi vorrà seguire questa strada in futuro.
L’intro, non che “Title Track“, riassume alla perfezione questo spirito: inizia come una ballade accompagnata da una chitarra acustica, per poi spezzare completamente con un riff veloce e distorto, preso a piene mani dai primissimi Sum41, per poi continuare a cambiare stile e modo di cantare all’interno del brano stesso.
I Tickets del titolo non sono altro che i biglietti per un viaggio, formato da diverse tappe tutte diverse tra loro, che visitiamo attentamente ma senza mai fermarsi troppo nella stessa zona.
Ricordate l’anedetto di prima della parte iniziale di un brano? Cosa farà mai all’interno del disco MGK? Per la precisione in “Split a Pill” (citazione ai NoFX)?
Sputa un incomprensibile frase che dovrebbe essenzialmente invitare a fare casino, dopo cinquant’anni, quello spirito è ancora vivo e chissà cosa deve ancora succere.
Di Giordano Conversini
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