Recensione di Triste
Dai meandri di Via Prione è emerso come il
Mostro della Laguna Nera il lato emotivo del rapper ligure, naturalizzato
milanese, o semplicemente cittadino di mondo. Ha aperto le porte ai lati più
remoti della sua personalità, riproponendo la sua mai ripetitiva e intangibile
allegria assieme ad una immancabile prepotenza, lasciando però spazio a
un’emotività inedita, nostalgica quanto malinconica. L’intervallarsi di gioia e
riflessione tra le 9 tracce di Triste denota un inaudito bipolarismo
dell’artista, che abilmente abbraccia tutte le peculiarità del suo ego.
Facendosi spazio tra sonorità rap, reggaeton, dancehall e afro tipiche della sua poliedria, Samuel Heron con Triste ci porta a conoscenza dei suoi interessi e del suo passato, custoditi gelosamente nel suo bagaglio esperienziale fino alla mezzanotte del 17 maggio – data d’uscita del suo disco d’esordio. Lo fa attraverso riferimenti che inserisce furtivamente fra la consapevolezza delle sue rime, resi palesi dall’assenza di filtri o metafore strampalate, elemento chiave delle sue liriche; gli scratch riesumati dall’intramontabile “SxM”, album/pietra miliare dell’hiphop italiano, presenti in “Gang Gang (prima)”, o la barra in “Papi Chulo” con cui omaggia Raekwon, membro del Wu-tang: è proprio da questi richiami che emerge una knowledge molto più ricca e articolata rispetto alle aspettative, che potrebbero erroneamente classificare Samuel come un negligente frutto dell’utopia dei social network.
Tra rime Pop e un’assenza di banalità,
l’artista Spésèo assume quasi le sembianze
di un Re Mida della comunicazione, dotato dell’abilità di mutare ogni concetto
in slogan sempre più efficaci, dando vita ad un costante impatto positivo che
vede l’ascoltatore rispecchiato da un’infinità di immagini riassunte in poche
rime; è così che esprime la sua personalità, dall’aspetto più introverso a
quello più tamarro, fusi in una miscela perfettamente uniforme che non nega
sbalzi improvvisi di mood ma ne accoglie l’imprevedibilità e ne fa il suo punto
di forza.
Nonostante l’intimità di Triste, un disco personale
volto all’autoanalisi consapevole ed il self-made tra le sue peculiarità principali, la torta dei meriti è costituita da diverse fette che lo esentano
dal merito assoluto, condiviso quindi con nomi tanto inaspettati quanto piacevoli.
In primo luogo troviamo Luis Sal, noto youtuber, come curatore della cover; non
è complicato distinguere anche il tocco del Team Itaca, la squadra composta da
Merk & Kremont, Leonardo Grillotti ed Eugenio Maimone nelle basi, gli
scratch di Ty1, fino alle inconfondibili voci di Lodo dello Stato Sociale e dei
membri della Dark Polo Gang.
Che palle! Comincia così l’album, con una
traccia di denuncia verso l’ipocrisia di una società plasmata dalle mode e
dagli influencer. “Che palle” riprende le singolari sonorità dei pezzi più
famosi, scanditi da un ritmo fatto per scatenare il rapper in balletti
spensierati. Il cambio di mood arriva subito dopo con “Ubriaco”, il picco di
emotività di una lettera verso una ragazza che, evidentemente, è riuscita a
catturare i suoi pensieri. È una canzone che ricorda il mare, l’estate e le
spiagge delle 5 Terre, non perde l’effetto ritmico ma mantiene il messaggio
addolcito dal connubio tra una base reggaeton e un drop alla Major Lazer.
Riemerge l’essenza tamarra con “Gang (ora)”, la terza traccia del disco:
l’accattivante ego trip promuove uno stile di vita carismatico ed esagerato,
regalando al gossip diversi poke con cui sfregarsi le mani. Cala ancora a picco
la prepotenza con uno dei pezzi più sentiti, “Londra”, una dichiarazione
d’amore verso la metropoli britannica, allegando aneddoti e tranquillità
impreziositi dalla voce di Lodo Guenzi. Siamo a metà, 5 canzoni e 5 cambi di
mood; “Chissenefrega” è l’esaltazione della sua spensieratezza, ha un piano e
un ritmo perfetti e rimane in testa dopo il primo ascolto. Torniamo subito cupi
con “Fb”, un esperimento ben riuscito con cui Samuel esplora sonorità indie e
puramente chill, coccolato dalle note di una chitarra acustica che introduce un
sassofono corposo nei suoi acuti facenti da outro. Non si fa in tempo a
riprendersi da questa morfina musicale che si fa spazio nel silenzio il loop
soffiato di “Papi Chulo”, uno dei pezzi più belli e movimentati dell’album;
omaggio alla reggaeton sudamericana d’inizio millennio, la ballata da carattere
all’unione con l’attitudine trap del Samuel Heron più provocante e provocatorio
e del Tony Effe di sempre. La wave rimane la stessa per le ultime tracce, “Gang
Gang (prima)”, arricchita dal tocco magico di Ty1 e “Napapijiri”, coprodotta
con Sick Luke.
Che dite, un po’ di curiosità ve l’ho messa?
Di Thomas Bianco
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