“Pain” è il nuovo progetto di Vale Pain, il primo dopo l’esplosione del fenomeno “Seven Zoo”, quello che ci si aspetterebbe essere il disco della conferma, nonostante dai più sia percepito come un disco d’esordio, nonostante gli album del biennio 2019/20 che hanno visto il giovane milanese in una fase estremamente produttiva. Un artista in rampa di lancio, in bilico sul punto più alto di questa salita, e perciò nel momento più rischioso e determinante. Da una parte lo stacco, il volo, la gloria, dall’altra la ripida discesa, la caduta, il ritorno al punto di partenza.
Tendenzialmente in una recensione ci si aspetta di trovare un racconto di quello che è il contenuto del disco, ma in questo caso non andrà così. Vorrei prendere “Pain” come esempio per fare un discorso più ampio, che già da un po’ avevo in mente e che trova le sue radici in tempi che, ormai, appaiano lontani. Ma si tratta pur sempre di una recensione per cui partiamo dall’album.
11 brani, poco meno di mezz’ora di ascolto, un disco poco impegnativo in un periodo in cui l’attenzione del pubblico è ai minimi storici, soprattutto nei più giovani, influenzati dalla caccia al singolo e dagli spezzoni ascoltabili su TikTok. Un progetto moderno e attuale sotto questo punto di vista.
Le produzioni sono affidate al solito e affidabile NKO per la maggior parte, con qualche nuova collaborazione in più come Young Miles, su cui Vale propone lo stile a cui ci ha abituato negli ultimi sei mesi. L’unico singolo anticipante l’album, “Te Quiero”, riassume un po’ quelli che sono i connotati stilistici scelti per progettare questo disco. Una scelta che, se da una parte fidelizza ulteriormente il suo pubblico più affezionato, dall’altra rischia di risultare ridondante con lo scorrere del disco, soprattutto se si prendono in considerazione anche i singoli che ne hanno affiancato l’attesa ma che all’interno non vi hanno trovato spazio.
Per l’ascoltatore più frivolo questo può passare come l’ennesimo progetto delle nuove leve in cui si parla di streetlife, di piccola criminalità e della scalata al successo. Io vi dico: sì, ma c’è dell’altro.
La chiave di lettura ce la suggerisce lo stesso artista nella descrizione dell’ultimo post pubblicato sul suo profilo Instagram :
“Con questo si chiude un capitolo della mia vita, il dolore passa ma ti rimane dentro”
Vale Pain, su Instagram pubblicato nel 14 Ottobre 2022
Questo, infatti, è un disco che volontariamente ripercorre le ultime fasi musicali della sua carriera, riportandone lo stile e le tematiche, arricchendo questo “riassunto” da un racconto di tutti quelli che sono stati gli elementi di dolore nella sua vita, tra gli altri la povertà e l’emarginazione sociale su tutti contrapposti al bene e la serenità derivanti dagli affetti personali (sia amici che famiglia), che emergono maggiormente nella seconda parte del disco. Una componente introspettiva necessaria in un disco di questo tipo, seppur acerba e, a tratti, marginale a causa di un’età giovanissima (Vale Pain è un classe 2002) che non gli permette una maturità nell’autoanalisi che altri colleghi più esperti possono vantare.
Tuttavia questo disco al primo ascolto mi ha lasciato con un unico pensiero predominante sugli altri: nonostante i pezzi risultino coesi tra loro per temi e sonorità seppur diversificandosi tra loro, si perdono l’una con l’altra. Non sono riuscito a percepire il tutto come disco vero e proprio, la tendenza sembra quella di un mixtape o di una raccolta di singoli. Forse per l’eccessiva caccia alla hit che al giorno d’oggi viene inculcata nella mente di questi giovani ragazzi, forse per la già citata mancanza di esperienza e maturità (che, come ho già detto, sono fisiologici rispetto all’età), oppure per la necessità del singolo che il pubblico quasi impone agli artisti.
Questo è il discorso più ampio di cui vi ho parlato all’inizio, quella che ho voluto chiamare “sindrome del singolo”, tendenza quasi nevralgica che, secondo me, grava sul mercato discografico odierno.
Andiamo innanzitutto a ricercare le cause di questo fenomeno e torniamo per un attimo al biennio 2015/16, rivoluzionario per il mercato. È in questo momento storico che gli artisti emergenti hanno iniziato (volontariamente o meno, questo non lo so) a basare le loro carriere sui singoli e non più sui dischi, e portare questa tendenza anche all’interno dei progetti. Vi faccio un esempio: ci ricordiamo di Fibra come “il rapper di Mr. Simpatia” oppure di Guè per il disco “Vero”. Ovviamente anche per i singoli, è fisiologico, ma principalmente per i colossali album che sono stati in grado di partorire e, in un secondo momento, sono emersi anche i singoli brani. Da quegli anni in poi, invece, ci ricordiamo di Sfera Ebbasta come “il rapper di Visiera a becco”(questo vale per qualsiasi altro suo brano divenuto virale) oppure la Dark Polo Gang per “Sportswear” e “Cavallini” o ancora, andando all’estero, Lil Pump come “il trapper di Gucci Gang”, quest’ultimo arrivato alla prova del disco non è riuscito a sostenere l’aspettativa arrivando praticamente a concludere anzitempo la propria carriera, anche a causa di questo fenomeno. Anche artisti di spessore mastodontico come Drake sono passati da dischi come “Take Care” in cui è esso stesso il protagonista, a progetti rovinati da una sequela di brani a caccia della hit, ne sono un esempio “More Life” (che nonostante tutto comunque ho apprezzato) e “Scorpion”.
Lo stesso Vale Pain viene ricordato come “il rapper di Louboutin“.
A questo cambio di percezione imposto dai rapper, si aggiunge una sempre più bassa attenzione del pubblico, che non ha né tempo né voglia di ascoltare progetti complessi e impegnativi a favore dei brani più di successo e delle playlist preconfezionate che Spotify ci propone. Un esempio è l’ormai divagante abitudine di basare l’hype verso un progetto sui featuring, portando sempre più artisti ad inondare i propri dischi di nomi (a volte insensatamente) dimenticando chi sia il vero protagonista.
E tutto questo è riferito al periodo sopracitato, provate a ragionare un attimo su quanto queste abitudini si siano inconsciamente radicate nel nostro modo di recepire la musica in un lustro.
Detto ciò non possiamo fare una colpa agli artisti di seguire le regole di mercato, infatti tutto questo mio discorso non vuole essere una critica né a Vale Pain né a chiunque altro, vuole solamente essere una riflessione su come il modo di concepire e costruire un disco sia cambiata nel tempo, e come la nostra percezione della musica sia, per certi aspetti, sbagliata. Anzi, il giovane milanese ha anche avuto il coraggio di fare un disco senza featuring, perfetto vista le sfumature personali del progetto e coraggiosa per la scena attuale.
Detto ciò “Pain” probabilmente verrà apprezzato dai più, è un disco di buona fattura e molto adatto al mercato. Nell’intro dice:
“Ho scritto con il sangue questo disco e sarà oro”
Vale Pain – Pain (2022)
Non ne ho la certezza, ma sicuramente ha buone possibilità di realizzare questa predizione dopo un analisi neanche troppo attenta. Sicuramente glielo auguro, rimane comunque un ragazzo che si impegna e crede nei suoi sogni, pertanto sarebbe sbagliato da parte mia (e di chiunque altro) augurargli del male.
Rimaniamo con un disco che conclude un ciclo e ne apre un altro, saluta il Valerio Paini, ragazzo che fa musica per passione e introduce Vale Pain, l’artista che lo fa per professione, diventando, a tutti gli effetti, il suo vero disco d’esordio. Ma siamo sicuri che basti per cambiare la percezione del pubblico e non essere più “quello di Louboutin“?
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