“Madreperla”, l’ottavo album in studio di Guè, pubblicato il 13 Gennaio 2023 per Universal è un evento simile alla cometa di Halley ma anche un manuale sull’Hip Hop e sul come affrontare di petto il mercato, se continui a leggere ti dico perché.
“Madreperla” porta con sé, nel titolo, un concept di ampio respiro capace di abbracciare insieme tutti i brani ma lasciando trasparire sullo sfondo intenti ben specifici che Guè, come chi si innamora la prima volta, ammette velatamente perché potrebbe cozzare con la sua immagine. Il titolo fornisce già un elemento primario per l’interpretazione. Come l’ostrica genera la madreperla partendo dall’intrusione di un granello di sabbia, Guè e Bassi Maestro, partendo da elementi apparentemente molto semplici, hanno realizzato un progetto raro, prezioso, per il mercato rap mainstream italiano.
Uscire con un disco in pieno stile rap anni ‘80/’90, nel 2023, è una scelta più che audace, non però se sei Guè. La mancanza di solide basi mai radicate in Italia di black music e, di conseguenza, di black culture giocano una primaria importanza per poter apprezzare e comprendere le sonorità applicate. La fetta di ascoltatori del Guercio cresciuta ascoltando il periodo aureo americano dei ‘90 con Biggie, Tupac, Nas, Nate Dogg, Ice Cube, Mobb Deep, e via dicendo, si è assottigliata sempre di più, rimanendo oggi quasi una minuta percentuale. Il suono che il mercato e la classifica prediligono non è assolutamente questo. Non è un disco che si appoggia propriamente al pop per resistere, si sostiene più con i featuring, che si sono messi quasi tutti rispettosamente a servizio del suono, e il nome stesso dell’autore. “Madreperla” non corre nemmeno dietro alle classifiche – salvo qualche episodio -, quindi ha con sé anche il rischio di risultare monotono. È una scommessa che, chi ha una fanbase così tanto solida e devota, si può permettere perché tanto sa che le sue vittorie standard e la quota minima di certificazioni riesce a riscuoterle.
“Madreperla” sta così tanto dritto sui suoi piedi che non sembra nemmeno un disco di Guè se si conosce la sua discografia, sarebbe più corretto, infatti, considerarlo un disco del binomio inscindibile singolarmente “Guè e Bassi Maestro”. Tanto per il tipo di scrittura utilizzata, quanto per i suoni messi in gioco, sembra che il rapper, appena consegnato e pubblicato “GVESVS”, abbia deciso per l’ennesima volta dopo “Fast Life 4”, di rifare qualcosa che piacesse in primis a lui e poi al pubblico. Visto il contesto in cui questo disco viene pubblicato, non è nemmeno sbagliato credere che possa essere un disco-rivelatore di gusti, una specie di tester: se questo disco attecchisce anche sulle nuove generazioni in maniera attiva, il lavoro di acculturazione che Guè ha sempre fatto, ma dal 2020 ha intensificato, sta veramente funzionando. Ci arriviamo tra poco.
La scrittura del disco e le basi del lavoro stesso sono i due punti su cui focalizzarsi, ma partiamo dal suono, perché questa volta al produttore va data più rilevanza di quanta generalmente glie ne viene data.
Il disco merita la definizione di “disco-evento” sia perché Bassi Maestro poteva re-intervenire nelle sfere del mondo Hip Hop solo sollecitato da Guè, come lui stesso alla Masterclass di Madreperla (tenutasi l’11 Gennaio 2023 presso il Teatro della Triennale di Milano) ha spiegato, sia per la risposta forte, rivelatrice, che le produzioni stesse hanno dato alla ricerca italiana del suono.
L’elemento concept della madreperla, con Bassi alla consolle, si percepisce quasi a primo ascolto. Le basi sono piene, strutturate, fatte, oltre che di campioni storici, di strumenti quasi minimalizzati, ben distinguibili, che l’orecchio può estrarre di primo acchito e capire che, quelli che in altri brani sono suoni partecipanti, qui diventano portanti e costitutivi. Il contesto valorizza e motiva una scelta: un granello di sabbia nel deserto, è trascurabile, ma un granello di sabbia in un’ostrica diventa perla, ed ecco che la vibrazione di un telefono su “Tuta Maphia” con Paky diventa un suono o come la voce di Judie Tzuke in “Stay With Me Till Dawn”, in “Need U 2Nite”, si carica la melodia intera.
La knowledge, il digging musicale, due capisaldi della cultura Hip Hop, ritornano al centro con il campionamento, elemento distintivo della musica rap, funzionale nel renderla democratica e grande fin dai lontani anni ’70. La scelta dei sample, come ha detto lo stesso Bassi, è stata laboriosa ed estensiva, una dimostrazione di quanta musica ascoltino i due ma anche la resa pratica delle loro influenze musicali: “Here Comes the Hotstepper” di Ini Kamoze in “Mollami Pt.2” dalle influenze jamaicane, “Amore Impossibile” dei Tiromancino in “Chiudi Gli Occhi”, il richiamo di Ron e della sua cover a “I Can’t go for that” di Daryl Hall & Joh Oates – tra i brani più campionati nella storia della musica – , “Stay With Me Till Dawn” di Judie Tzuke in “Need U 2Nite”.
Bassi ha risposto originalmente, in maniera diversa, alla tendenza dell’attuale beatmaking, rimodulando un’alternativa presente sin dagli albori di questo genere: tramite l’ascolto di questo disco si riverberano le essenze di una musica che, da oltre mezzo secolo, continua a spingere e che, a sua volta, spinge l’ascoltatore ad andare a conoscere e ri-conoscere gli elementi che la costituiscono, dando in cambio il dono della ricerca, di un sapere fine e sé stesso afferente all’emisfero musicale.
La componente stilistica di Guè può apparire sottotono, limitata, stanca, ma come ha fatto presente anche alla masterclass, è frutto di un lavoro certosino, una specie di raffinamento grezzo, come un se le parole fossero state limate appositamente, cesellate, per poter incastrarsi, come in un puzzle di legno, negli ampi spazi lasciati dal beat quando respira. Prestando un po’ di attenzione alla composizione testuale, la maggioranza delle parole usate sono bisillabe, trisillabe, ma soprattutto piane, con l’accento sulla penultima sillaba, per poter seguire l’andatura del ritmo e risuonare insieme alla musica. La costruzione testuale degli altri album, infatti, è completamente differente poiché i beat stessi permettevano maggiore libertà ed estensione sintattica delle strofe senza risultare cantilenante.
La potenza sonora del lessico, unita a quella dei beat, crea un l’effetto della punchline a scoppio ritardato: la base in loop essenziale riporta a galla le parole del testo e, se il beat di un certo brano ti rimane addosso, dopo qualche ascolto, si attacca anche la rima che inizia ad acquisire senso. I pochi avvitamenti tecnici e la mancata ricerca smaniosa di flow nuovi lasciano spazio ad un esperto impiego dello storytelling, declinato a suo piacimento: in “Prefissi” si frammenta in molte storie innescate, appunto, dal prefisso telefonico dei diversi paesi, in “Lontano dai Guai” invece si presta ad una narrazione propria, compressa invece in poche barre, pregne di significato, che lasciano un senso di amarezza agrodolce tipica di Guè quando scrive di Cosimo.
La scrittura del rapper, come dicevo sopra, dal 2015 in poi (con l’album “Vero”) è diventata più personale, ma dal 2020 in poi, ha avuto un cambio di rotta, una presa di conoscenza e coscienza che hanno dato nuovo smalto al personaggio e alla sua musica. Oltrepassare i 40 anni e la paternità di una figlia non ha lasciato indifferente nemmeno Barney Stinson, che è un personaggio di fantasia, e a quanto pare nemmeno Guè. Mai come ora si percepisce la profonda volontà di divertirsi facendo musica ma lasciando un segno tangibile, sia nel cuore di chi lo ascolta, sia nel cuore di una cultura, come quella Hip Hop, che in Italia ha fatto sempre fatica ad attecchire. L’uomo Cosimo, in ogni disco sempre più presente, (vedi “Immortale”, “Stanza 106”, “Ti Ricordi” in “Mr. Fini” o “Fredda, Triste, Pericolosa” e “Too Old To Die Young” in GVESVS) e la volontà di Guè di importare una cultura (pensiamo ai featuring precedenti con Akon, Rick Ross, Jadakiss, qui Benny The Butcher), chiaramente palesato anche dalla Masterclass, sostengono quanto detto e irrobustiscono il processo di acculturazione Hip Hop che Guè, in qualche modo, ha portato sin dai tempi dei Club Dogo.
Guè ora è il punto d’intersezione generazionale, per i nuovi e per i vecchi, di tutto il rap nella Penisola, ha conquistato uno status inscalfibile nella scena a suon di progetti con cadenza annuale, ha realizzato il sogno italiano di “fare il cash senza il gabbio”, cos’altro gli resta se non continuare a edificare il palazzo fatiscente di una cultura che resta ancora oggi incompresa? E come?
Con un disco-manuale sul rap, sull’Hip Hop, che insegna le basi e i capisaldi del genere voglia imparare, recuperando l’istanza primigenia di voler fare musica divertendosi – perché si sente tanto che Guè in questo disco si è divertito da morire – ma raccontando qualcosa di proprio, senza concentrarsi esclusivamente sulla classifica. Un tributo così grande al rap, pregno di significati, seppur non privo di compromessi, difficilmente lo rivedremo nel breve termine, poiché al momento, nessun altro artista mainstream, ha l’amore e la devozione che questo artista ha per questa cultura.
Tralasciando qualsiasi gusto personale, l’importanza che Guè questo ricopre per la scena italiana, verrà compresa su larga scala solo quando la sua produzione rallenterà, ma di questo non dobbiamo parlarne per forza ora.
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