” Non so davvero cosa scriverà
il primo scrittore che tratterà
questo segmento storico tanto surreale
quanto grottesco.
Scenari apocalittici già visti, giocati, letti,
mai vissuti ma già descritti.
Siamo tutti politici (e animali) critici ed esperti,
ma la realtà è frammentata
ultrafiltrata e vaporizzata; piovono e facciamo
scorrere fiumi di parole che non
comprendiamo affatto e che non comprendono noi stessi.
Larve da social network avvolte da coperte di pile
che fanno la storia soltanto scorrendo con il dito,
slogan virali e tragicomici rinchiusi da un cancelletto.
Abbasso la luminosità dello schermo.
E’ oramai una sera come tante.”
Diario di quarantena
L’assordante silenzio delle vie, delle piazze vuote, il brusio del continuo pensare e il brontolio degli indignati muniti di tastiera ed opinione facile mi hanno spinto a salire in camera, chiudere la porta per correre in bagno, ma non per rigurgitare o peggio ancora, per defecare, ma per aprire il rubinetto della vasca e fare un lungo bagno caldo. La cassa waterproof della Sony non manca mai, lì appesa dove meglio posso captare i suoni. Prima di aprire l’acqua devo solo scegliere quali brani mettere in riproduzione. Ripenso alle videochiamate con gli amici in cui mi vengono chiesti consigli musicali, e all’affermazione “qualcosa di introspettivo” rispondo difficilmente, tolti casi eccezionali con cui ho un certo tipo di rapporto, consigliando Lil Peep.
Quel preciso istante che precede il tocco del tasto play del suddetto artista, scatena, per chi lo ascolta da un po’, un micro-trauma emotivo paragonabile al colpo finale che si dà ad un uovo per rompere il guscio. In questo caso il guscio dell’uovo è il sottile scudo fatto di formalismi e circostanze quotidianamente esibito e l’albume ed il tuorlo che fuoriescono in forma viscosa e molliccia sono i sentimenti e le emozioni diversi, in contrasto, ma che con un po’ di forza centrifuga diventano un tutt’uno.
Ribattezzato da Jon Caramanica, critico musicale del New York Times come “il Kurt Cobain del rap”, Lil Peep (1996-2017) è il pioniere e massimo diffusore della commistione dei suoni hip hop rap e punk, contaminati dalle atmosfere emo, dalle chitarre distorte dell’alternative rock e orchestrati da una produzione musicale inizialmente di bassa qualità degna di essere classificata come lo-fi.
Non starò qui a raccontare la sua biografia tranquillamente rinvenibile su Wikipedia o ancor più dettagliatamente, tramite l’apporto audio-visivo dal film “Everybody’s Everything” (straconsigliato a tutti), ciò su cui mi voglio concentrare è l’apporto emotivo tremendamente vero che l’artista defunto riesce ad evocare.
Lil Peep è l’iPhone, è le scarpe nuove costosissime da mettere poche volte, è il desiderio di possedimento dell’edonismo fisico, è una limousine, è il nichilismo occidentale finito nell’acceleratore impazzito di particelle postmoderno.
Gustav Elijah Åhr (il suo vero nome) è il ragazzo che vuole scappare dal paese di provincia perché soffre l’isolamento ma che non è felice nemmeno in mezzo ad un mare di gente. La separazione in piena età adolescenziale dei suoi genitori ed uno spiccato gusto per l’orrido, il grottesco, il macabro sono i motivi per cui le sue ferite rimarranno costantemente aperte, calde e pulsanti di sangue.
L’unione idiosincratica di Gustav e di Lil Peep (il nome d’arte deriva da un nomignolo datogli dalla madre in tenera età) genera un prodotto unico quanto raro ora tenuto a galla ora inabissato da un fortissimo carisma, da una debole personalità, dalle droghe e dagli antidepressivi.
La volontà espressiva non replicabile dell’artista non si limita a creare e riprodurre la tristezza mimeticamente ma si spinge forgiare artigianalmente un manufatto che non rappresenta il dispiacere e i suoi derivati, ma un suo equivalente, rarefatto ed etereo, cristallizzato e disperso in micro-schegge appuntite nella sua vastissima produzione musicale.
La voce, caratterizzata dal suo originale tipo di “rapping”, coadiuvato da un cupo e strascicato autotune, è paragonabile agli abbassamenti e agli innalzamenti di toni vocali iniziali e finali di un adolescente isterico in piena crisi di pianto. Il fiato rotto dal pianto esalato permette di fornire all’interpretazione musicale la drammaticità e la melanconia rinvenibili anche nelle canzoni più spensierate (es. “Beamerboy”, cavallo di battaglia che lo ha fatto emergere dalle retrovie musicali del SoundCloud americano).
I prodotti musicali, partendo dagli innumerevoli mixtape per arrivare agli ultimi album, sono degli unicum che oltre a mappare il vissuto, il cammino artistico ed emotivo del ragazzo, rivelano la loro più completa forza se presi singolarmente e ascoltati senza interromperli; “Lil Peep; Part One” descrive il travaglio emozionale e l’automedicazione (fatta di medicinali antidepressivi e sostanze psicotrope) usata per guarire dal crepacuore scatenato da una relazione finita male, “Crybaby”(letteralmente “piagnone”, oltre ad aver dato vita al suo immaginario sonoro, tale mixtape è stato reso celebre dal tatuaggio in faccia) è congeniato per incoraggiare sé stesso e il pubblico al fine di ricordare di essere riconoscenti e non piangere più, “Hellboy” è la proiezione del suo spettro emotivo danneggiato dalla famiglia e dalle turbe personali: l’esorcizzazione emotiva, con un linguaggio in alcuni casi quasi oscuro, con associazioni di idee nemmeno poco chiare all’ascoltatore, permette per la prima volta di salire sull’ottovolante mentale di Lil Peep comprendendo, ma non del tutto, chi Gustav realmente è. Questi sono soltanto alcuni dei più iconici prodotti lasciati da Peep, senza tralasciare i numerosi EP (alcuni realizzati con il suo vecchio collettivo e altri con la GothBoiClique). Artisticamente parlando, lo sfogo più elaborato e decifrabile dell’autore è rinvenibile negli ultimi prodotti composti in un vero e proprio studio di registrazione: “Come Over When You’re Sober 1 e 2” (quest’ultimo postumo) raggruppano tutti i germogli affiorati nel corso del suo “The Peep Show” (tour di concerti) poi sbocciati ed esposti nei suoi primi album ufficiali.
Ciò che si può cogliere da tutta la sua discografia, se ascoltata per intero, è una spremuta di cuore tenuta in fresco da cubetti di ghiaccio di umore nero, è un voler far emergere la voce del suo interno, un canto violentemente egocentrico che si denuda impudicamente in pubblico quasi pretendendo che gli ascoltatori trovino, nella vita privata sregolata di un loro pari, una verità universale. I lembi di vissuto vengono sigillati nei brani senza curarsi delle orecchie che ascolteranno, i campioni sapienti di famose band rock costruiscono un ponte con il passato; è limare una realtà caustica per idealizzare dei dettagli che racchiudono degli spaccati sentimentali ben precisi (es. Now I’m lookin’ at my phone, should I text you? – “Gym Class”) non soffocati dalla cocaina, dalle scappate occasionali e dalle stucchevoli autocelebrazioni atte sì a schernire ma al contempo rivelatrici di fragilità.
L’acqua bollente e il bagno sensoriale musicale da cui mi appresto ad uscire setacciano le parti più oscure sotterrate nel subconscio, le ferite aperte più che alla sofferenza portano ad un’ascensione, il dolore diventa una chiave per la conoscenza e, in maniera del tutto pirandelliana, morire ogni attimo e rinascere una volta ancora apre le porte al mondo della vita in cui si percepisce intimamente la propria esistenza in mezzo a miliardi di persone.
Non soffocare i lati fragili, struggenti, del proprio carattere e del corredo emozionale permette di far fluire ed assaporare il sale del suolo che si è costretti a raschiare; Lil Peep è l’amico che è già affogato ma che sguazza con te nel magma in cui sei miseramente intrappolato, non ti tira giù con lui ma ti fa capire che, in quanto magma è sì bollente e distruttivo, ma se sai annasparci fino al momento giusto, puoi scottarti tanto da liberarti dall’involucro negativo che ti avvolge.
Quella sensazione che hai quando regoli l’acqua per il bagno, quel preciso istante in cui è appena troppo calda, ma subito dopo ti adatti e trovi la tua temperatura.
In quarantena, questa è una sera come tante.
Di Riccardo Bellabarba
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