Un mito sulla musica Global Ghettotech.
Che cos’è la musica diasporica? Cercheremo di rispondere a questa domanda.
La prima cosa che dobbiamo cercare di chiarire è che cosa significa diasporica.
La diaspora secondo quanto si trova scritto nella pagina di Wikipedia “è un termine di origine greca (deriva dal verbo greco διασπείρω, letteralmente “disseminare”). Il significato originario è quello di “dispersione di un popolo nel mondo dopo l’abbandono delle sedi di origine” o di “dispersione in varie parti del mondo di un popolo costretto ad abbandonare la sua sede di origine” e per via estensiva “dispersione di individui in precedenza riuniti in un gruppo”.
A partire da questa definizione generica possiamo iniziare a pensare che la musica diasporica è la musica di un popolo che ha subito questa dispersione o disseminazione. Possiamo dire quindi che il nostro oggetto d’interesse nasce in quanto risposta culturale a questa dispersione, è quindi una forma capace più di altre forme culturali di disseminarsi nel mondo e di ri-assemblarsi attraverso costanti negoziazioni culturali. Se si vuole utilizzare una metafora semplice si può pensare alla musica diasporica come un faro che illumina i processi di germinazione della cultura o di circolazione delle forme culturali.
Il Blues dell’ultimo angelo della storia
Ad esempio, il Blues è una musica diasporica e i generi musicali che da esso si sono originati fanno tutti utilizzo di alcuni principi di base di questa forma culturale. Sono musiche che esprimono la necessità di ricreare una rete di senso di fronte alla dispersione subita. Per rendere il tutto più complicato citerò l’inizio del documentario afrofuturista “The Last Angel of history” realizzato dal regista John Akomfrah nel 1996.
L’inizio di questa opera afrofuturista è esplicativo di cosa si deve intendere nel momento in cui si parla di musica diasporica. La risposta ovviamente non è la musica diasporica è x e y, ma è una sorta di genealogia di generi musicali che nascono come per mutazione. Anzi più che di una genealogia si tratta di una teogonia musicale in cui il diavolo dà il blues in dono a un giovane ragazzo nero (questa storia è presente anche all’interno del film dei fratelli Cohen “Fratello dove sei?”, dove i tre protagonisti collaboreranno proprio con il giovane bluesman):
“Ci siamo imbattuti nella storia di un bluesman degli anni Trenta, un ragazzo chiamato Robert Johnson; dunque la storia è che Robert Johnson vendette la sua anima al diavolo, all’incrocio del profondo Sud…vendette la sua anima in cambio ottenne il segreto di una Tecnologia Nera, una tecnologia nera segreta, a noi nota come il blues: il blues generò il jazz, il blues generò il soul, il blues generò l’hip hop, il blues generò l’R&B.”
Il Blues ci viene presentato come un dono diabolico, una tecnologia segreta, una tecnologia diasporica in cui si riscontrano in ogni cambio e variazione di genere inedite negoziazioni tra forme culturali. In questa infinita mutazione dobbiamo riconoscere la caratteristica primaria della musica diasporica. La musica diasporica sembra funzionare attraverso meccanismi di negoziazione e riterritorializzazione delle forme culturali che sono mutazioni nel codice genetico della vita quotidiana. Ciò significa che le subculture a cui la musica diasporica dà luogo sono formazioni culturali che, invece di formare e riconoscersi in una tradizione culturale sempre uguale a sé stessa, una volta e per tutte, ne istaura una autonoma e temporanea che si riconosce nella costante mutazione.
Così possiamo continuare la lista del documentario con i generi nati dall’hip hop come la trap, la drill, la jungle, il trip-hop, l’hiplife, l’afrobeats. Si tratta sempre dello stesso fenomeno. Il contagio viro-culturale che permette a ciò che ancora non si era sentito di essere udito. È un aumento percettivo, un grimaldello contro ciò che opprime la nostra sensibilità. Il documentario da cui nasce questo filtro interpretativo è infatti una delle opere più importanti dell’afrofurturismo.
Un’avanguardia che si riallaccia al filo rosso che accomuna tutte le grandi avanguardie artistiche del Novecento, cioè quello di colpire fino a shockare lo spettatore. Seppur in termini molto diversi, il punto resta la sensibilità di chi percepisce: l’ascoltatore. La citazione che abbiamo visto ci offre un filtro interpretativo tramite cui guardare alle mutazioni dei generi musicali e alla loro proliferazione, anche in Italia.
La scena italiana: la Catra Dance delle Pretty Girls.
Per quanto riguarda la realtà nostrana, ci appoggeremo agli esempi che hanno citato i nostri amici de “La Base”, in un loro interessantissimo post. L’ep di WadeLeVrai “Teranga” è un pezzo di Africa che ti arriva dritto in faccia senza preavviso, grazie ai suoi ritmi afrobeats e da rap francese. Terenga è un esempio perfetto di come la musica diasporica registri in tempo reale le negoziazioni culturali in atto. In questo caso nel pidgin di francese, inglese, africano e italiano, così come nell’uso del clave come schema ritmico predominante del progetto.
L’utilizzo dell’afrobeats da parte di Ketama126 in “Piano piano”, da Hammon in Catra Dance contenuta nel “Il Pianeta delle Scimmie” e di “Pretty Girls Love Sardinia” della Nuova Sardegna mostrano come l’afrobeats sia uno dei generi con maggior capacità di contagio, con un alto tasso di crescita. Così come lo è la Drill che si è subita diversificata nata in contesto inglese, si è subita duplicata per gemmazione a Brooklyn. Da noi ha trovato terreno fertile a San Siro nelle mani del giovane NKO, fino a creare uno dei rapper italiani più internazionali che siano esistiti finora cioè RondodaSosa, ma anche tra personaggi meno conosciuti come MBOSS.
Le mutazioni stilistiche del scena rap italiana stanno piano piano prendendo piede, probabilmente ancora agli albori, come per la Dembow portata avanti in Italia da Disme. Chissà se prima o poi la scena potrà assomigliare a un “Pour l’amour” o a un “Ragazzi Madre”.
La varietà sonora della scena sta cambiando asse? Tu cosa ne pensi?
Con quanto suggerito dalla citazione di “Last angel of history” si può cercare, adesso, di vedere i meccanismi di negoziazione e ri-territorializzazione delle forme culturali in funzione.
Si tratta di quel che i filosofi Gilles Deleuze e Felix Guattari hanno chiamato divenire minoritario del linguaggio, in un loro saggio su Franz Kakfa. Che c’incastra Kafka con la musica diasporica? Si tratta del fatto che era originario della Repubblica Ceca, ma che scrisse i suoi romanzi in lingua tedesca. Il modo in cui egli ha utilizzato la lingua principale ha creato una sorta di secondo linguaggio. Si tratta di questa tipo di cose quando si parla di territorializzazione e ri-territorializzazione del linguaggio. Si può usare come esempio la natura slangata del rap.
L’utilizzo di un determinato registro linguistico è una scelta stilistica che ha un significato culturalmente importante, in quanto definisce un’identità. E i primi segni di questa a volte sono propri i termini utilizzati per scelta stilistica, il gergo, le inflessioni, gli accenti, i toni. Lo slang e il flow sono declinazioni di tutto ciò e gli esempi potrebbero essere infiniti. Pensiamo un attimo a Rondo con il suo uso dello slang inglese piuttosto massiccio, come avviene nel primo progetto della Nuova Sardegna o anche dell’SLF, così come nell’uso dell’arabo da parte di Baby Gang, Ghali, Axell, 7even Zoo.
La fusione di dialetto calabrese, inglese e italiano della FIAMA Gang, il mumble rap di Hammon rendono subito evidente cosa si possa intendere con vernacolarizzazione dell’inglese o dell’arabo, o del dialetto all’interno dell’italiano. Questi sono esempio di negoziazioni culturali all’opera, sono combinazioni-mutazioni all’interno del linguaggio, che si potrebbe descrivere come dialettizzazione di termini arabi, americani, inglesi, francesi.
Questo è solo però un piccolo aspetto di una questione molto più grande. Per rendere l’idea di quanto grande la cosa possa essere, lascio la parola a uno dei maggiori teorici dell’afrofuturismo Kedwo Eshun.
L’immaginazione sonora di Kedwo Eshun
Il seguente è un estratto del testo di Eshun “Più brillante del sole”. Il testo di Eshun non è un testo tradizionale, ma è scritto per suggestionare e ispirare il lettore. Il critico musicale mette per iscritto la teoria afrofuturista e questo estratto può essere letto in continuità con l’estratto di “Last Angels of the History”. Come una continuazione di quella teogonia ma aggiornata al mondo globalizzato: adesso la tecnologia segreta del blues si è mutata un Futuritmacchina:
“A fine secolo, la Futuritmacchina ha 2 tendenze opposte, 2 trasmissioni sintetiche: una Soulful e una Postsoul. Da una parte l’anima, dall’altra il superamento dell’anima. D’altro canto, tutta la musica si compone di entrambe le tendenze simultaneamente azionate su tutti i livelli, il che significa che non puoi semplicemente contrapporre un R&B umanista a una Techno postumana. La disco resta il momento in cui la Musica Nera precipita dalla grazia della tradizione gospel fin dentro la catena di montaggio metronomica […]l’era in cui la Storia dell’HipHop poteva esaurire la Musica della Macchina è finita da tempo. Tutte queste petizioni per prendere sul serio l’HipHop, per chiedere alla BBC di dare una possibilità alla Techno, per concedere un ascolto equo alla House: miserabili suppliche del genere sarebbero dovute finire anni fa. Perché non c’è più niente da dimostrare: tutte queste Ritmacchine sono ora popolari a livello globale. E quindi basta favole del Bronx inculcate a forza e niente più liturgie HipHop ortodosse. Ce ne sono già abbastanza. Più brillante del sole si concentrerà semmai sulle Futuritmacchine che albergano all’interno di ogni campo, offrendo un ascolto ravvicinato a null’altro che agli emigranti interni della musica.”
Dal libro di Kaswo Eshun, “Più brillante del sole” pp.8-7
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