Nelle principali pagine che raccontano la storia dell’Hip Hop, quello delle donne è sempre stato un ruolo marginale, relegato ai consigli per gli acquisti. In realtà, analizzando più da vicino le più importanti scene mondiali si nota che fin dall’inizio hanno costituito una parte considerevole nello sviluppo della cultura. Ciononostante, nel rap, a differenza di qualsiasi altro campo artistico e musicale, tanto le riviste di settore quanto gli stessi artisti hanno sovente definito il contributo delle rapper come un’aggiunta, invece che come parte integrante. Non a caso, l’appellativo di female rapper è pressoché unico nel suo genere, soprattutto da un punto di vista puramente semantico, posto che non abbiamo mai sentito parlare di un astruso epiteto quale “male rapper”.
Pertanto, sarebbe opportuno non parlare di scena rap femminile perché, di fatto, non esiste o, meglio, esiste nell’insieme “scena” che comprende chiunque si cimenti nel genere, indipendentemente dal sesso. D’altra parte, è innegabile che per una serie di ragioni intrinseche, il rap sia da sempre stato un terreno battuto soprattutto dal sesso maschile ma a circa cinquant’anni dalla nascita dell’intero movimento è necessario rifare l’inventario e mettere ogni cosa al suo posto.
Storia e sviluppi del “rap femminile”
Stati Uniti ed Europa, due visioni differenti del “rap femminile”
Per ciò che concerne gli Stati Uniti, le figure pionieristiche sono molteplici ma solamente negli ultimi decenni sono iniziati a piovere riconoscimenti che non fossero di secondo livello. Per esempio, Roxanne Shanté, così come Queen Latifah, nonostante la sua breve carriera, ha contribuito a sdoganare la pratica anche grazie al supporto di altri artisti come Marley Marl o Big Daddy Kane. Proprio questo concetto, quello di aiutare è stato sottolineato a più riprese anche da altre rapper quali MC Lyte, che nel 1988 divenne la prima donna a pubblicare un album solista, che ha affermato che, al di là del successo commerciale, addirittura gli organizzatori dei concerti tendevano a giocare al ribasso col compenso economico. Inoltre, sempre secondo l’artista di Brooklyn, che nel 1993 incise per la prima volta il nome di una ragazza nelle candidature dei Grammy Awards afferenti al rap, ha da sempre sottolineato quanto le euristiche e i pregiudizi di genere fossero radicati sistemicamente nella scena rap americana a cavallo tra anni Ottanta e Novanta.
Per quanto riguarda l’Europa, invece, la situazione è simile per certi versi ma differente per altri. Ciò che risalta maggiormente è che, per la maggior parte degli anni Novanta e nei primissimi anni Duemila, le rapper europee rappavano soprattutto di argomenti fortemente sociali, come nel caso di Diam’s e Keny Arkana in Francia. Al contrario, negli Stati Uniti è stato fin da subito, anche grazie al sostrato culturale, un tipo di rap che guardasse più in là delle posse e del rap politico che ha mosso gran parte del rap europeo, con quello italiano in prima linea su questo fronte. Come se nel nostro continente fossero simbolicamente costrette a lottare di più che nel luogo di nascita dell’hip hop.
Tra vecchio e nuovo millennio
Gli anni Novanta, considerati a menadito l’età dell’oro del rap mondiale, hanno visto affermarsi sempre più artiste che hanno spianato la strada a quelle attuali sia per lo stile che per il lessico utilizzato. Infatti, si passa da esperimenti più intimi e riflessivi a momenti più scanzonati ed ecclettici. Per quanto riguarda i primi, è doveroso citare il lavoro di Lauryn Hill ed Erykah Badu, in cui il rap si mischia ad altri generi della musica nera, ma anche a elementi della stessa cultura afroamericana, andando di pari passo col sentimento d’orgoglio instillato dai grandi movimenti per i diritti dei neri negli USA e dalle dottrine di elevamento spirituale (vedasi Elijah Muhammad). A riprendere invece lo spirito ancestrale dell’hip hop e dell’aggregazione tra le più importanti troviamo Foxy Brown, Lil’ Kim, Missy Elliott e Remy Ma a continuare quanto già sedimentato dal duo Salt-N-Pepa anni prima.
Da questo momento in poi sono sempre maggiori le canzoni in cui il tema del sesso viene sdoganato anche da una prospettiva diversa da quella maschile. Difatti, le due correnti appena citate si intersecano in “Doo Wop (That Thing)”, pezzo contenuto in “The Miseducation of Lauryn Hill” (1998), primo e finora unico album rap interamente composto da una donna a essere diventato disco di diamante, in cui si parla di sesso ma da un punto di vista più ricercato, sottolineando come possa essere usato in maniera spregevole come mezzo per raggiungere altri scopi. Dall’altro lato, al contrario, si esalta questo argomento con video sempre più appariscenti e mettendo in luce la figura della video vixen, cambiando per sempre l’estetica femminile nel rap.
A primo impatto, potrebbe sembrare scontato ma in realtà non lo è affatto se si considera il periodo storico ma soprattutto il ruolo della donna nella società occidentale, non ancora pienamente emancipata. Analogamente, Gwendolyn D. Pough (2004), docente alla Syracuse University, afferma che rimettere in discussione ciò che si dava per scontato e usare il rap come strumento di dibattito può aiutare a rompere qualsivoglia tipo di barriera.
You could be the king but watch the queen conquer
Le provocazioni di Missy Elliott in pezzi come “The Rain (Supa Dupa Fly)” e il tocco magico di Timbaland alle produzioni hanno contribuito a stabilire delle fondamenta anche per questo stile, nonostante le ostilità di qualche decennio prima. È proprio grazie a questa sfacciataggine, in piena linea con la mentalità del Southern Rap che un uragano si scatena nel rap: Nicki Minaj.
Parlare dell’importanza e dei primati ottenuti dall’artista trinidadiana vorrebbe dire stilare un elenco quasi infinito. In realtà, è però meritorio dedicare qualche riga all’attenzione e alla cura che Nicki pone nei suoi versi, che assumono anche triple interpretazioni, che fanno di lei un’artista epocale e capace di stare sempre sulla cresta dell’onda, alternando rap e pop ma senza snaturarsi mai. Come dichiarato dalla stessa cantante a XXL Magazine, “Pink Friday” (2010), suo primo album ufficiale, ha reintrodotto ma stavolta in maniera dirompente questa tipologia di attitudine, che le ragazze avevano quasi abbandonato. Lo stesso disco, infatti, è stato il primo solista di una rapper a essere certificato disco di platino. Il 2010 è un anno magico per Nicki Minaj poiché la sua strofa contenuta in “Monster”, di Kanye West (contenuta a sua volta nell’album My Beautiful Dark Twisted Fantasy) è diventata una delle strofe rap più iconiche degli anni 2000, di quei momenti che nei commenti di YouTube si ricordano con un “io c’ero” e che ai concerti fa andare in visibilio una folla di decine di migliaia di persone. La portata dell’artista è incalcolabile, considerato che si colloca al quinto posto nella classifica di tutti i tempi degli artisti con almeno 100 canzoni nella Billboard Hot 100. Lo stile menzionato a inizio capitolo trova la sua definitiva esplosione in “Anaconda”, nel 2014, in cui riprendendo il sample e gli argomenti trattati in “Baby Got Back” da Sir Mix-a-Lot ribalta il ruolo della semplice vixen girl elevandola a stella del video, artista compresa, dimostrando che “oltre alla gambe c’è di più”.
Periodo contemporaneo per il “rap femminile”
Complice quanto detto, se associato al ruolo dei social network nella società attuale, è molto più semplice comprendere che direzione stanno prendendo a livello mondiale le stesse rapper. Oggi, infatti, è molto più facile trovare artiste che abbracciano diverse correnti e non più la dicotomia rap conscious – empowerment. Alcuni esempi potrebbero essere Tierra Whack e Armani Caesar, fondendo il proprio rap con strumentali ricercate e avanguardistiche. Non mancano nemmeno episodi al limite del nonsense o pienamente ispirati dai meme, come gran parte della discografia di Cupcakke e diverse tracce di Doja Cat, o, come nel caso di Young M.A., di cronaca di strada. Perlomeno negli USA però partendo da Missy Elliot e arrivando fino a Cardi B, Megan Thee Stallion e le City Girls a fare da padrone è ancora l’attitudine fuori dagli schemi, che ha fatto della sessualizzazione delle donne nei video un rap un loro nuovo punto di forza, un veicolo per affermarsi ancora di più.
In Italia, artiste come Carrie D e La Pina hanno messo le basi per una generazione che si è ispirata quasi in maniera scontata al nuovo continente. Non è casuale che, ad esempio, personalità esuberanti Baby K, Anna e Grelmos attingano da quella fonte mentre Madame si rifaccia ad uno stile completamente diverso.
Da MC Lyte ai giorni nostri sono cambiate tante cose e in primo luogo la percezione del rap come un genere non esclusivamente maschile, sebbene i commenti sui social tendano ancora oggi a sminuire l’operato di tante ragazze. Nel mentre però si stanno perdendo dischi come “Grey Area” (2019) e “Sometimes I Might Be Introvert” di Little Simz, entrambi candidati al Mercury Prize, artiste latine come Nathy Peluso, Snow Tha Product o la stessa Villano Antillano, a mettere in risalto pure il movimento transgender.
Pertanto, riprendendo quanto detto in calce, è svilente ed errato definire una “scena femminile”, a maggior ragione se bisogna tenere conto delle capacità di qualsiasi persona stia rappando. Fortunatamente, il rap tende a essere meritocratico e pagare sul lungo per le capacità, al netto di fenomeni che durano una stagione o mode passeggere; dunque, accantoniamo questa retorica divisoria. Tuttavia, l’affermazione del sesso femminile in un genere musicale il cui mercato è dominato prevalentemente da uomini è certamente degno di nota e di approfondimenti, in modo da scovarne le radici e godere dei suoi frutti. Perché il rap femminile non esiste: esiste il rap e spaccare è l’unica cosa che conta.
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