Sono sempre stato fan di tutto ciò che riguarda l’universo Sad Boys e Drain Gang, dall’identità visiva fino alle strumentali passando per il linguaggio. Ricordo ancora le prime impressioni di quando mi sono interfacciato per la prima volta a Yung Lean: era diverso, era unico, era dannatamente originale. Ancora di più però era un giovanissimo ragazzo di Södermalm, un’isola che forma un quartiere della città di Stoccolma, che aveva voglia di raccontarsi ed esprimersi senza paura di non venire compreso.
Yung Lean, o meglio, un giovanissimo ragazzo di Södermalm

Per capire Jonatan Aron Leandoer Håstad, in arte Yung Lean, è necessario avere chiaro il contesto da cui proviene. Södermalm non poteva che essere il suo quartiere di provenienza, data la natura fortemente artistica di quell’isoletta che oggi rappresenta forse la zona più bohémien della capitale svedese.
Se passate per le sue strade, vi accorgerete sicuramente delle mille vite che ha vissuto perché nella storia di Södermalm c’è stata anche tanta sofferenza. Oggi la si percepisce ancora o, meglio, si percepisce ciò che ha scaturito artisticamente: una natura do it yourself che rende caratteristici i negozi vintage e le caffetterie della via Folkugagatan. E forse è proprio così che doveva essere la genesi di un artista tanto rivoluzionario come Yung Lean, che ha avuto anche la fortuna di formarsi come essere umano anche in Bielorussia e in Vietnam.

La sua sensibilità dovuta anche all’impulso del padre poeta e traduttore e della madre attivista per i diritti umani ha innescato una vena artistica che ha influenzato il rap mondiale ma che per tanto tempo non voleva convivere col suo protagonista.
Se non siete parte della fanbase accanita di Yung Lean, probabilmente sarà difficile inquadrare il personaggio. Un po’ vaporwave, un po’ Y2K, un po’ rock, un po’ rap, un po’ di questo e un po’ di quello. Jonatan ha sempre voluto fare come prima cosa, senza guardare troppo a cosa stesse facendo, dato che nella sua vita c’è sì la musica (con più alter ego, tra poco ci arriviamo), ma ci sono anche altre espressioni artistiche che compongono l’intero mosaico.
Ma arriviamo a Jonatan: cos’è, se non addirittura chi è?
Innanzitutto, Jonatan è prima di tutto l’uomo, la mente, l’idea che c’è dietro a tutto il progetto Yung Lean. Un progetto che dopo il grande boom ha trovato alti e bassi, normalissimo come per tutti coloro che rischiano e non vogliono accontentarsi. Forse Yung Lean non aveva più nulla da dimostrare, specialmente dopo aver praticamente convinto una generazione delle sue capacità, ma tanto ancora da mostrare e scoprire.
Quasi come se l’essere Yung Lean comportasse fuggire dall’essere Jonatan e dai ricordi grigi del ricovero a Miami Beach durante le registrazioni di “Warlord”. Probabilmente è nata, in parte, anche qui quella confusione che ha annebbiato il suo cammino negli anni successivi.
Dunque, Jonatan non è solo il nome all’anagrafe ma anche il nome del side project jonatanleandoer96, a tinte più sperimentali. Anche il nome è indicativo, quasi un nome utente da primi anni 2000 tipico di chi stava scoprendo la rete per la prima volta e con lei le sue innumerevoli possibilità.
Come raccontato più volte dallo stesso artista, questo progetto alternativo gli ha permesso di tornare a giocare con la musica, come quando aveva iniziato. Nessun compromesso, nessuno sguardo al mercato ma puro istinto e desiderio di scoprire il mondo mentre cercava di riprendersi dall’oblio emotivo che ha permeato la sua carriera. In qualche modo, jonatanleandoer96 dall’album “Psycopath Ballads” (2016) e da quelli successivi ha forse rimesso i pezzi assieme e ridato una direzione artistica all’enfant prodige venuto da dove il buio dura sei mesi ma quello personale può durare una vita.
La ricerca di sé e di un suono che riuscisse a dare voce alle emozioni più intime ha fatto sì che anche le release degli ultimi anni siano andate verso quella direzione. I video con i caratteri giapponesi, le animazioni con le statue greche, il thé Arizona e i colori pastello sono un lontano ricordo e hanno piano piano lasciato lo spazio a un mondo più rancido, scuro e distorto. Un po’ come in quelle serate in cui decidi di cedere il tuo corpo all’alcol o alle droghe in cambio di qualche effimera emozione, qualche scarica di dopamina che però presenterà il conto nelle ore successive.
Nel frattempo, tutto gira: la testa, il locale, le voci si fanno difficili da capire e tutto assume dei contorni sempre meno definiti e tangibili. Proprio come la musica di Yung Lean che da dieci anni a questa parte ha preparato il terreno che ci ha portato a “Jonatan”, l’ultimo album pubblicato dall’artista svedese.
“Jonatan”, l’album
La prima parola con cui descriverei “Jonatan” è torbido. Questo progetto non può essere analizzato se prima non si prende in considerazione un aspetto personale che lega ancora di più l’artista e il disco. Jonatan Aron Leandoer Håstad è sobrio da più di un anno e si è riappropriato della sua vita, rivelando di averci dato un taglio con la vita veloce e di preferire una vita semplice e frugale da cui finora era scappato.

E allora perché “Jonatan” è un disco torbido? Perché Yung Lean accetta la realtà, con anche le sue implicazioni negative e tra loro le tracce seguono un filone e una coesione che solo l’artista stesso è in grado di comprendere fino in fondo.
Per questo, dunque, adesso è importante che le idee siano nuovamente al centro della rinascita artistica e personale dell’autore. E sostenendo ciò, allora, anche l’urlo disperato di Skorpan dell’adattamento cinematografico de “I fratelli Cuordileone” presente in “Jonatan Intro”, il brano che apre l’album, suona come un brusco risveglio dopo un incubo. Forse quella ragazza che chiama proprio suo fratello Jonatan rappresenta la coscienza di Yung Lean che gli indica l’inizio di un nuovo percorso.
A differenza del passato, questo progetto sembra essere sulla stessa linea di pensiero che ha lo stesso artista, che ha addirittura deciso di ridurre al minimo gli effetti anche sulla voce. Sporco, oscuro, torbido. Ancora, sì. Perché forse è proprio questa la chiave del disco ed è ciò che me lo ha fatto percepire come tale.
Non è un caso se anche lo stesso artista si è trovato più volte spaesato durante la lavorazione del disco. Come raccontato in un’intervista, “Jonatan” è frutto di tre anni di lavoro, di incertezza e di tanta ricerca interna.
Forse quel torbido di cui abbiamo parlato finora assume dei contorni più definiti se si pensa anche a brani come “Forever Yung”, in cui fa i conti col suo passato. O, ad esempio, tracce come “Paranoid Paparazzi”, “I’m Your Dirt, I’m Your Love” e “Babyface Maniacs” forse ci preannunciano già cosa dobbiamo aspettarci in futuro, come stile e come argomenti.
Dall’altra parte, non nasconde nemmeno le sue contraddizioni, specialmente nella parte finale del disco in pezzi come “My Life” e “Swan Song”, in cui affronta i suoi fantasmi e cerca di trovare la serenità dopo anni di guerra con la sua stessa persona. Gli ultimi due brani sono, invece, degli statement, un quadro chiaro di ciò che l’uomo è e che vuole diventare.
“Terminator Symphony” è quasi un testamento artistico, un modo per ripartire e sacrificarsi in toto per questo nuovo percorso. Il disco si chiude, infine, con “Lessons from Above” dove il rapper si lecca le ferite e nell’outro ritorna di nuovo la voce di Skorpan de “I fratelli Cuordileone” che chiama ancora una volta suo fratello.
Adesso Jonatan è tornato a vivere a Södermalm, imparando ad apprezzare anche le imperfezioni che rendono quasi kitsch alcune vetrine dei negozi del quartiere ma che, in qualche modo, lo rendono così caratteristico agli occhi del mondo.
Probabilmente, allora, è anche giusto che non tutti i fan storici di dell’artista abbiano apprezzato “Jonatan”, che forse non è solo un album con Jonatan Aron Leandoer Håstad come autore ma addirittura come destinatario. Due insiemi che finora non si erano mai incrociati ma che forse hanno finalmente trovato l’incastro perfetto proprio ora che Yung Lean sta imparando a convivere con Jonatan.
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