Recensione di 1990
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Un Achille Lauro crocifisso rischiava di campeggiare su un maxi-cartellone nella frequentatissima Corso Como, nell’epicentro della notte milanese. “Me ne frego” è il grido irriverente che il rapper romano urla all’autorità, a quella prudery che è il segno indelebile di una Milano ormai aliena agli eccessi a lei un tempo cari. L’icona cristologica non è casuale, né lo è la scelta (potentissima) di cucire sul Cristo un’estetica glamour, che sulla Sacra Sindone avrebbe lasciato tracce di smalto e una variopinta trama glitterata. No, non è solo provocazione, né esclusivamente delirio di onnipotenza – oltreoceano c’è già un altro che si proclama figlio di Dio. La crocifissione in Corso Como è il luogo in cui il dramma a toni oscillanti di Lauro de Marinis si sarebbe consumato e rigenerato, decadendo e fiorendo di nuovo: come nelle canvas di Spotify, l’uomo già bambola si fa in pezzi e nei pezzi si ricompone. A nuova vita egli rinasce, a una nuova sagoma che nella vaporwave massicciamente glam che sorregge l’estetica del disco sfuma i contorni tra le sessualità e si appropria – come prima di lui aveva fatto quel Bowie in cui lui stesso si è incarnato – di una assai spiazzante androginia.
Nella palingenesi di Lauro i più acuti osservatori noteranno un’anomalia: la morte-rinascita, che non a caso si colloca nel 1990 (anno dei natali del rapper), avviene nella piena mondanità meneghina, in un luogo assai dissonante rispetto alla solitudine mortifera del Calvario del Cristo. Di più: se quello di Achille è davvero – lo è – un gesto di riappropriazione dell’eurodance dei ’90, perché la sua dissoluzione avviene in Corso Como, in quella via che più d’ogni altra richiama quasi nostalgicamente l’immaginario luminosissimo della Milano da bere degli anni ’80 – in anticipo dunque di un decennio?
La risposta è la chiave di interpretazione del disco, nonché la chiave di lettura della stasi in cui la identità polimorfa di Achille Lauro si è fissata nell’ultimo periodo.
Per rispondere, un breve excursus storico. Gli anni ’80 furono un periodo di generale ottimismo per il nostro paese: per la prima volta, lo Stato italiano chiude in positivo rispetto al debito pubblico e, com’è solito, alla fase di crescita economica corrisponde una espansione dei consumi e una straordinaria diffusione di quel modello di vita che i Rolling Twenties hanno consacrato come American Way of Life. Il decennio dell’ottimismo è “il sogno tutto glitter, steroidi, seni enormi e bicipiti in vista” (Rockit), l’apogeo della pubblicità, dell’icona, del Miami dream. Presto, però, il trapasso di decennio imprime tutto un altro ritmo al corso della storia: il crollo dell’URSS, Tangentopoli, gli attentati mafiosi, la crisi dei partiti, la sfiducia nella classe politica. Come spesso accade, all’achme segue il declino, e gli anni Novanta intercettano di petto tale decadenza, solo successivamente smorzata dalle innovazioni che annunciano la grande Rivoluzione Tecnologica. La musica si chiude da una parte in strenui difensori di generi ormai vecchi – il rock si estenua nel grunge, e i suoi coltivatori si chiudono nella loro torre d’avorio – dall’altra nei club, dove orge di droghe e sesso si consumano al ritmo forsennato della neonata musica dance. Una inedita alleanza tra musica e disco stringe il suo patto, destinato a un folgorante successo seguito da una fase di quiescenza e di oblio – un’alleanza che recentemente alcuni esperimenti rap e lo stesso Lauro hanno provato a rinnovare.
La morte e rinascita di Achille si situa proprio al trapasso di decennio. Alla morte della vita, egli annuncia la propria nascita (che è anche biografica, come detto) morendo alla mascolinità stereotipata e all’ottimismo degli ’80 per ricomporre i propri pezzi nella cupezza ambigua e nel solipsismo sofferto e drogato dei ’90. Il risultato è un’estetica femminile, in cui il candore della pelle si macchia nel rito della tatuazione e il macismo del leader si sfuma nella sensibilità epidermica del travestito. Il corpo è al centro di questa transustanziazione: il ragazzo di borgata – quell’uomo femminino e sacro che Pasolini ha immortalato nel suo genio – affascina confondendo, e da leader del gruppo si fa elemento liminale e sfuggente. Avendo fatto del proprio corpo simbolo tra status symbol e della propria figura un evento, il dandy di periferia (espressione acutamente coniata dall’articolista Patrizio Ruviglioni su “Rolling Stones”) così vistoso e tamarro ci invita sulla sua auto fucsia e, nel delirante sogno da luna park, ci trasporta al 1990. Notate: muovendo in avanti, non indietro.
Si può a ben diritto parlare di “estetica del dramma” per comprendere ‘1990 (Deluxe Version)’ e la densità dell’operazione concettuale sottesa al progetto. Tutto dipende dal modo in cui lo ascolterete. Ignorando gli interludi, esso si configura seriamente come puro divertimento, come ritorno ben rivisitato alla dance wave degli anni Novanta, che alcune seconde generazioni disturberà ed altre ecciterà – e che sulle prime generazioni agirà come un sano sprone a tornare su una floridissima stagione della musica anche italiana. Un’operazione postmoderna precisamente eseguita, che assembla atti del passato dando loro nuova vita, deformandone leggermente i motivi – ma senza cancellarne l’identità – o straziandone gli umori, come accade in ‘Blu’, remix della storica hit ‘Blue’ degli Eiffel 65. Un toccasana per la musica dance, che farà ballare nelle discoteche dopo periodi di grande prudenza e – forse – affiancherà giovani e adulti (Achille Lauro è ormai un fenomeno intergenerazionale). Infine, un altro episodio di quella coalizione tra rap/Trap (vedi i featuring presenti, Ghali, Gemitaiz, Capo Plaza, Massimo Pericolo) e dance che negli ultimi tempi sta ritrovando nuova vita.
Se invece ascolterete con attenzione anche le parlate radiofoniche che precedono ciascuno dei 7 brani, vi situerete su un livello ulteriore e più profondo di ricezione. Solo allora comprenderete l’ambivalenza solidissima che sorregge tutto il disco, la sua architettura in episodi doppi e la fluidità di umori che spazia con disinvoltura nelle diverse regioni della geografia emotiva di Lauro. Nei monologhi di un minuto o poco meno, troverete sciolto l’ego di Achille nei luoghi delicati dell’iconoclastia autoreferenziale (“Ave o Maria“), del ricordo straziante (Amore in pillole, 3 ore a notte), dell’edonismo dissoluto; lo coglierete solo a visitare gli anfratti oscuri dell’anima (Dissonanza emotiva) e a svolgere quasi profeticamente un racconto-testimonianza (Banco degli imputati). Troverete il dolore dello ieri imploso e ricomposto nel sorriso arcaico di Ken; la fatica della borgata ricucita sotto una finta pelle tatuata dal successo odierno. Così animata da spinte dinamitarde che essa stessa esplode e si rifà, continuamente muore e rinasce.
Per chiudere: “1990 (Deluxe Version)” non è solo un omaggio al passato e ai brani che Lauro ascoltava andando sulle giostre, non è solo una playlist di hit del passato opportunamente rifatte; Achille Lauro non è solamente un jukebox che periodicamente reinventa il suo repertorio ed esplora ora l’eurodance dopo essersi appropriato del pop rock in ‘1969’. ‘1990’ è l’effigie faticosamente conquistata su due volti, due umori e due tempi. I tradizionali lati A e B si affiancano in un corpo unitario, che fa ballare ma anche riflettere e si riappropria finalmente dei club e delle radio. Pur senza raggiungere gli effetti straordinari di ‘Astroworld’, Lauro crea un suo universo virtuale e, volente o nolente, ti tuffa dentro un mondo a tratti inquietante di fucsia e glitter. La rivoluzione promessa per il secondo album per Elektra Records è qui non certo raggiunta ma annunciata nel suo impianto di fondo: tracciare sul solco del passato la sagoma di un futuro la cui collocazione è altamente problematica.
Di Marco Palombelli e Riccardo Bellabarba
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