Quando ti ritrovi a vivere un copione che ai più appare già scritto, le tue possibilità e le tue aspirazioni risentono del peso di un destino che sembrerebbe aver già preso ogni scelta senza interpellarti. Se d’improvviso ti ritrovi a sconvolgere quella narrazione, quella vittoria la devi in parte al tuo passato, soprattutto se, come Quincy Matthew Hanley, quel passato ti identifica e rinnegarlo implicherebbe amputare una considerevole parte di te.
Sin dal primo momento, come da script, la violenza e le armi sono qualcosa che fanno già parte della vita di ScHoolboy Q, figlio di una soldata dell’esercito americano, nato in una base militare in Germania dell’Ovest nel 1986.
Dopo un breve periodo vissuto in Texas, Q e la madre si trasferiscono a South Central L.A., nello specifico tra Figueroa Ave e Vermont Ave, in un punto che fa da congiunzione alle due avenues: Hoover Street. La strada in questione costituisce il terreno operativo dei “The 52 Hoover Gangster Crips (HGC)”, una delle principali e più longeve gangs della City of Angels nonché l’unico set a proclamarsi tutt’oggi affiliato al gruppo dei “Crips”.
Il rapporto simbiotico tra il quartiere e la gang finisce per permeare ogni aspetto della vita dei locals, e in un ambiente così è difficile non rimanere incastrato tra i meccanismi contorti e pericolosi della strada, al punto da vivere un’esistenza le cui due sfere sono impossibili da scindere e intorno a te l’aria ha lo stesso odore ferroso del sangue.
“My superhero’s a woman, you know she served for this country
ScHoolboy Q – Germany 86’ (Blue Lips, 2024)
Sent her back to the Hoovers, left her son for the shooters
We in the streets playin’ catch, I guess we comin’ up nеxt, uh
I guess we comin’ up next, I guеss we growin’ up stressed
By ten years, we was 30, watchin’ your homie get stretched
Watchin’ your homie get X’ed out and bleed through his flesh”
Così ScHoolboy Q (con l’acca di ‘Hoover’ rigorosamente maiuscola) entrava a far parte della gang vivendo intensamente la vita del quartiere con tutti i suoi controsensi e apparenti opportunità, fino a ritrovarsi a scontare una condanna a 6 mesi di detenzione per rapina.
Una volta fuori, punta tutto sul rap e sulle aspettative che l’allora emergente label Top Dawg Entertainment, al tempo già occupata da nomi come Kendrick Lamar, AB Soul e Jay Rock, aveva riposto in lui. Con questi, formò Black Hippy, un gruppo di MC che non fece tardi a farsi notare, ottenendo il co-sign di mostri sacri come Dr. Dre e Snoop Dogg, pur non avendo mai pubblicato alcun progetto.
Cosa certa è che in quegli anni L.A. pullulava di nomi che sarebbero di lì a poco esplosi, tra cui Nipsey Hussle e Tyga, due affiliati a gangs losangeline rivali dei HGC e che nutrivano comunque enorme rispetto per Quincy, ma prima con Setbacks e poi con “Habits e Contradictions” Q si faceva largo a gomiti alti.
Il vero successo arriva più tardi con Oxymoron, terzo studio album che vanta apparizioni di altissimo calibro, tra cui Raekwon, Kendrick Lamar e Tyler, the Creator, diventando per diversi fan il progetto più identitario e ben riuscito del rapper di South Central.
Che Los Angeles fosse ormai sulla mappa non era una novità, a testimoniare, il successo globale che K.Dot stava riscontrando e che aveva aperto le porte del mainstream a Compton e la California tutta, ma il suono West Coast, nella sua rinnovata forma aveva un altro ambasciatore, un uomo della gente, che visto il suo passato incarnava fedelmente le sembianze di “uno di loro”.
Nel 2016 arriva Blank Face LP, un progetto in cui la sperimentazione di sonorità e timbri raggiunge altissimi livelli, ormai un vero e proprio marchio di fabbrica di groovy Q,mache riesce nel contempo a rappresentare mentalità, stile di vita e quindi sound delle periferie di Los Angeles.
Nel 2019 l’autore torna in scena con CrasH Talk, album ricco di momenti ispirati e bangers (su tutti, Floating con 21 Savage), ma non privo di episodi più deboli meramente riempitivi.
A distanza di ben cinque anni, Q si rimette in gioco con Blue Lips, firmato ancora una volta da TDE.
Il disco si allontana dall’impostazione scorrevole e immediata del precedente, osando soprattutto sul piano delle produzioni musicali.
In più della metà della tracklist, la strumentale dopo qualche manciata di secondi viene completamente stravolta (in alcuni casi, più volte nello stesso brano), rendendo questo effetto-sorpresa un tratto distintivo dell’intero progetto, WestCoast più per attitudine e senso di appartenenza che per sound.
Tra i momenti più impattanti dell’album vi è Pop, traccia che urla e trasuda Blank Face, la versione punk, “incurante” e velenosa di Quincy, quella di tracce come Ride Out e Dope Dealer. Cacciata la maschera, groovy q sfonda la porta d’ingresso.
Le batterie e la chitarra di Rico Nasty sono nitroglicerina alle fondamenta di una tendenza che attualmente predilige sonorità e strumentali soul, estremamente pacate, figlie del sound Griselda e che in questo periodo storico fa da padrona. A South Central L.A. però, tutto esplode. A condire perfettamente, la presenza ingombrante di Schoolboy che non lascia nemmeno le ossa e che in questa forma non delude mai. L’unico bullo che ci piace.
Agli antipodi di Pop c’è Blueslides, che catapulta all’improvviso l’ascoltatore in un confessionale. La strumentale squisitamente jazz ha la forza di ricostruire quasi d’incanto le macerie che le tracce precedenti avevano lasciato. Per l’occasione Q mette su l’abito da pastore che prima del voto ne ha viste fin troppe, e con un flow che fa scivolare le sue strofe sulle note del piano, regala un sermone di strada che sa di redenzione e peccato.
Uno spazio riservato, sicuro, costruito con cura e dolore, che Q ha voluto dedicare per qualche attimo ad una delle figure per lui più significative, la cui scomparsa continua ad essere un nervo scoperto: Mac Miller. Trattasi di uno dei momenti più intimi del disco, forse anche quello più alto, a dimostrazione della capacità del rapper di Los Angeles di raccontare con estrema sensibilità tutto il marcio che cattive scelte e aspirazioni pericolose si portano dietro. Di nuovo “Heaven” e “Hell” che gli fanno da ombra.
I pezzi forti non si limitano solo alla prima metà di Blue Lips: proprio agli sgoccioli dell’album spicca Lost Times, uno di quei brani che possono essere padroneggiati solo dagli MC con un flow prolifico, intrigante e stiloso.
Non sorprende che a curare il sound della quattordicesima traccia, colonna sonora ideale per il prossimo American Gangster, e che rimanda immediatamente i più navigati alle sonorità di Marcielago e Act 1: Eternal Sunshine (The Pledge), sia The Alchemist, che di strumentali affumicate, totalmente o quasi drumless e ricche di sample degni delle rovine perdute, ne detiene ormai da anni il brevetto. Non si tratta di un duo che lavora per la prima volta insieme: Uncle Al aveva già sparso della polvere magica su un beat che ha finito per diventare il primo vero biglietto da visita del rapper di South Central.
Qualcosa di pressappoco identico, venne fatto da Alchemist in Blackest in the room per Freddie Gibbs, ma qui Q sembra intoccabile. Quando un MC risulta così tanto disinvolto su un pezzo, al punto da non dare l’impressione di averlo meditato, scritto e riadattato, ma suonando come un flusso di coscienza sputato sul momento, vuol dire che non c’è originalità che regga il confronto.
Tirando le somme, Blue Lips è un disco dall’impalcatura imponente, che sperimenta senza avvalersi di una hit spacca-classifiche che faccia da Cavallo di Troia per invitare all’ascolto (vedi THat Part in Blank Face). Tuttavia, nonostante la durata potenzialmente ostica, l’album riflette con coerenza e decisione le sfaccettature stilistiche di un autore che proprio quando osa riesce a dare il meglio di sè e a confermarsi come uno dei talenti più brillanti che la scena rap della costa ovest abbia mai avuto.
Con la collaborazione di Matteo Mirabella.
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