Quando sento “Che Bello Essere Noi” la mia mente fa un salto nel tempo di ormai quasi quindici anni, per tornare al periodo in cui scoprii questo disco e, conseguentemente, i Dogo. Erano gli anni delle superiori, quelli in cui YouTube iniziava la sua ascesa come portale su cui fruire liberamente della musica e dove chi, come me, si stava affacciando al genere poteva esplorare liberamente e scoprire nuovi artisti.
Si da il caso che un giorno mi ritrovai nei suggerimenti al video che stavo guardando (probabilmente di Fibra, uno dei pochi che al tempo conoscevo) un brano intitolato “Cocaina”, che da buon adolescente pseudo-ribelle misi subito in play anche solo per il nome così crudo e impattante. Inutile dilungarsi su quello che successe dopo e negli anni a venire, e quanto poi mi affezionai a questo gruppo di rapper.
Ci tenevo particolarmente a scrivere di questo disco, forse uno dei più “dimenticati” dei Club Dogo, probabilmente perché successivo ad una serie di quattro dischi pressoché inarrivabili, oppure per l’anima maggiormente “commerciale” (definizione abusata in quegli anni, non solo per questo progetto) o ancora perché poteva sembrare meno rap rispetto ai predecessori e ai diretti concorrenti.
La verità è che questo disco si può considerare uno dei loro più completi e, a suo modo, rivoluzionario. Già pregusto le critiche quando voi che leggete arriverete a questa definizione volutamente forte, ma lasciatemi spiegare cosa intendo.
La qualità dell’album credo sia indiscutibile, fatta eccezione se vogliamo per “Spacco tutto”, che tuttavia merita un discorso a parte (che faremo in seguito), ma che comunque tutti noi abbiamo cantato e cantiamo a squarciagola – comunque, un pezzo iconico -. Ci troviamo il rap crudo e street di “Anni zero” e “Qualcuno pagherà”, con la presenza di tre degli artisti più identitari di quel segmento, i Co ‘Sang e Nex Cassel (oltre a Noyz Narcos nella precedentemente citata “Cocaina”); abbiamo i brani dal sound più leggero, quasi da club, come “D.D.D” e “Fino alla fine”, abbiamo i ritornelli cantati di “Giù con la testa” e “Il sole e la luna” e troviamo anche una buona dose di introspezione, all’epoca non così presente nei loro dischi, oltre ai pezzi in pieno stile Dogo come “Ciao proprio” e “Per la gente”.
Dopo questa rapida rinfrescata su quello che il disco contiene – come detto in precedenza, un po’ di tutto – ci rendiamo conto di come “Che Bello Essere Noi” sia in grado di soddisfare anche oggi i palati di praticamente ogni tipo di ascoltatore, da quello più appassionato all’underground fino al clubber che ascolta solo le hit del rap italiano dalle playlist di Spotify.
E ricordiamoci che l’anno è il 2010, in cui tutti questi ragionamenti di mercato non esistevano, anzi, il genere stava appena mettendo il naso fuori dalla sua nicchia per affacciarsi al magico mondo del mainstream e dei soldi veri dalle case discografiche. Quanto appena detto, musicalmente, prende proprio il nome di “Spacco tutto”: forse la prima vera hit mainstream firmata Club Dogo che, anche chi ai tempi reputava il rap “roba da sfigati” (praticamente tutti), cantava a squarciagola quando veniva passato alle feste.
Ma perché allora rivoluzionario, direte voi.
Perché se riflettiamo a come il rap veniva interpretato in Italia prima e dopo questo disco, anche prendendo in esame i singoli Club Dogo, ci accorgiamo di come siano due modi di fare diametralmente opposti.
È da qui che prende il via quello che, col senno di poi, viene definito stile “anni ‘10”, quello che ai tempi rischiava di frequente l’appellativo di “commerciale”, fatto di suoni elettronici, forse più del necessario, e sfoggio dello status da star appena acquisito dai nomi grossi del genere. Non è un caso che tutto ciò sia partito dal 2010, come non è un caso che proprio in quell’anno venisse pubblicato “Che Bello Essere Noi”.
Senza dubbio è uno dei dischi più divisivi dei Dogo, proprio per questa anima rivoluzionaria che porta nel sound e nell’approccio dei tre artisti, ma sicuramente è un disco che chi, come me, che proprio in quegli anni si appassionava al genere, non può che portare nel cuore.
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