Kaos, uno dei rapper più storici del nostro paese, è tornato con “Chiodi”, il nuovo disco, il sesto ufficiale, dopo ben sette anni di attesa.
Sette anni sono un periodo lungo già di per sé ma se lo contestualizziamo nel rap diventa ancora più esteso. Aggiungiamo al lasso temporale la considerazione delle dinamiche del mercato musicale odierno e ci renderemmo conto di quanto questo periodo sia realmente biblico. Se però il tuo nome è Kaos né ti ritrovi spaventato o in soggezione a doverlo affrontare né con tutta probabilità te ne frega qualcosa, perché sei abituato a un altro modo di fare musica che non esiste più, in cui la resa commerciale di un progetto non viene neanche presa in considerazione. Esiste la musica e le cose che vuoi dire nel disco. Stop.
È questo lo spirito che il disco trasmette: un prodotto libero da vincoli autoimposti di natura commerciale e pertanto capace di parlare in modo chiaro, limpido e diretto all’ascoltatore che si ritroverà proiettato in un saggio di autoanalisi effettuata dall’artista su sé stesso, dove verranno poste delle domande alternate a degli sfoghi, in un turbine di pensieri in cui l’aspirazione è di liberarsi dai chiodi fissi che la vita l’ha portato a generare; da qui, presumibilmente, il titolo del disco.
Il processo di destrutturazione della propria psiche si avvia, naturalmente, con l’intro “Boris Karloff” titolo che cita il celebre attore resosi famoso per l’interpretazione di creature mostruose (Frankenstein la più conosciuta). Questa scelta di citazione ci porta fin da subito a due importanti deduzioni in vista del disco: la prima è quella dell’immaginario horror, che farà da filo conduttore per quanto concerne alle atmosfere musicali selezionati per il progetto, per l’appunto cupe e facilmente riconducibili alle colonne sonore di quel genere cinematografico; la seconda è il fatto che Kaos si identifichi come un mostro per certi aspetti, sicuramente psicologici o comunque non visibili ad occhio nudo, pertanto sceglie di identificarsi in un attore che ha interpretato quel tipo di ruolo. La domanda implicita è se il rapper casertano si senta effettivamente al pari di Frankenstein, ovvero una creatura orrorifica, se avverta una percezione esterna di questo tipo quando in realtà lui non trova un riscontro, oppure, se sia conscio di non essere uno spauracchio ma abbia accettato questo ruolo all’interno della scena rap.
Superato questo primo tassello il disco procede con “3° grado” dove vengono poste domande ma, attraverso esse, vengono anche date delle risposte, principalmente sullo status raggiunto nel corso della sua carriera, un vero e proprio interrogatorio in bilico tra se stesso e gli altri. Questo tipo di interrogazioni prosegue anche in “Titanic” brano estratto come singolo d’anticipazione del disco, in cui l’artista riprende le tematiche riferite al suo posto nella scena, aggiungendovi una componente di risentimento e disaccordo.
Liberatosi da questo tipo di pesi il disco cambia forma, andando a scavare più in profondità, con la title track che è un inno alla scrittura e all’introspezione, in cui ci viene ricordato perché Kaos ad oggi gode di una certa reputazione, in una sequela di metafore ed immagini che raccontano a cuore aperto quelle che sono le preoccupazioni di un uomo che ormai ha vissuto una buona parte della sua vita, e che sente avvicinarsi inesorabile la parte finale. Questo tipo di riflessioni sul tempo che scorre inesorabile vengono protratte anche nel brano successivo, in cui troviamo anche il primo dei due featuring presenti nel disco: i Colle der fomento, che, grazie ad un affinità in termini di età e vissuto, si rivelano perfetti per portare un altro punto di vista sulla questione, rielaborando il tema dal punto di osservazione dei sogni, dei desideri e dei sensi di colpa che la vita ha portato loro, con un occhio più “nostalgico”, spostandosi dalla paura alla consapevolezza rispetto a “Chiodi”.
A questo punto c’è un altro cambio di rotta. Troviamo “Prometeo” dove sembra quasi che Kaos, dopo le riflessioni degli ultimi due brani, abbia preso coscienza di quello che il futuro gli riserverà nel lungo periodo, ritrovando serenità e voglia di mettersi in gioco, togliendo per un attimo se stesso dalla lente d’ingrandimento e mettendoci sotto gli altri, il mondo intero e tutto il male che lo sta rovinando verso un finale orribile ma, a meno di inversioni di tendenza di difficile previsione, inevitabile. Osservato tutto ciò il rapper si eleva a voce narrante, nel tentativo di farci aprire gli occhi e prendere coscienza di quanto negativa sia la situazione, come un moderno Prometeo appunto che ruba la saggezza agli dei per donarla a noi, con lo scopo di farci accorgere, tramite il lume della ragione, del pericolo incombente.
Come conseguenza a ciò c’è un ulteriore presa di coscienza da parte dell’artista, lucido, una volta ancora, nel comprendere quella che è la sua arma principale: la parola, emblematico infatti è il paragone su cui si basa il brano tra i sassi e le parole, entrambi dolorosi se lanciati nel modo giusto. Tutta la sua vita si è basata su di essa e, a questo punto, esce la necessità di renderla protagonista, scomponendola in ogni sua possibile utilità ed impiego, rendendola centrale anche se, di fatto, nella sua musica lo è sempre stata.
La traccia che segue è una risposta a delle domande che, dopo la presa di coscienza sull’arsenale a sua disposizione, sorge presumibilmente spontanea: queste armi, a cosa mi servono? Cosa devo combattere? Cosa alimenta le mie battaglie?
Veleno. Questa è la risposta che Kaos ci offre in “Kanpai”, termine giapponese per proporre un brindisi. Risposta per se stesso ma anche allargata a tutti coloro di cui ha parlato precedentemente in “Prometeo”. Il ritornello è il centro esplicativo di questo brano in cui si gioca su, appunto, il brindisi e la sostanza che ne riempie i calici.
A questo punto l’attenzione si sposta sull’industria musicale e, di conseguenza, sulla scena rap, da cui gli artisti, perché è qua che troviamo il secondo ed ultimo featuring con i DSA Commando, cerca di staccarsi per divergenza di vedute, andando a criticarne l’evoluzione e la diversità rispetto a come loro l’avevano immaginata ad inizio carriera, nel momento in cui erano gli artefici diretti della genesi e della prima fase di costruzione di questa. Il ritornello si basa su un campionamento di “Notte dell’estate” di Valentina Greco, un elemento in più che può sembrare un dettaglio ma che completa un’atmosfera precisa, di uno stile di rap che praticamente non esiste più.
Da qui si apre un’ultima fase del disco, quella conclusiva, dove vengono tirate le somme. “The outsider” ci accompagna all’uscita: un brano estremamente complesso, racchiude tutte le tematiche toccate nell’arco dell’ascolto, sotto forma di “qualcuno” inteso come figura indefinita e onnipresente che personifica tutti gli aspetti negativi dell’esistenza di Kaos, ma anche di tutti noi.
Siamo arrivati all’ultima traccia, l’outro, che in realtà potrebbe essere anche un’intro, in cui l’artista ri-presenta se stesso nel senso letterale dell’affermazione, riassumendo il disco in due strofe senza ritornello, che ci danno un senso di chiusura del cerchio, citando lo stesso brano “vuoi un finale perfetto o una giustizia sommaria?”. In questo caso il finale è perfetto per davvero, capace di ripercorrere e concludere un lavoro strabordante di significati, denso, non leggero per come siamo abituati dalla musica odierna.
Chi non è abituato a questo tipo di dischi potrebbe reputarlo pesante, ma la verità è che “Chiodi” è esattamente il disco che Kaos doveva fare. L’artista si racconta in modo estremamente maturo per un pubblico, il suo pubblico, che ormai è cresciuto con lui: parla di tematiche importanti raccontate in modo mai scontato, da una penna che si conferma ancora una volta tra le più interessanti mai esistite in Italia. “Chiodi” è un viaggio nella psiche del suo autore, un disco capace di intrattenere e allo stesso tempo far riflettere, un disco di cui, oggi come oggi, avevamo bisogno.
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