Recensione di Re Senza Corona
Non è andare a zonzo per la Capitale in vespa, come ci hanno abituato le pellicole cinematografiche, Re senza Corona di Gianni Bismark è sfrecciare per le vie di Roma respirando l’odore dell’asfalto bagnato. Il giovane rapper romano parte subito a tutto fuoco con il suo primo disco da solista, punta dritto verso quel tipo di successo che comporta redenzione e ribalta.
Tiziano Menghi, a.k.a. Gianni Bismark (così chiamato per il nome completo del suo calciatore preferito che militava nella Roma dell’ultimo scudetto vinto, Gianni Bismark Guigou) è l’autore di “ Re senza Corona”, disco d’esordio per l’artista che ha firmato recentemente per l’etichetta “777 ent” della Dark Polo Gang.
Dalla copertina si capisce tutto l’attaccamento che il ragazzo ha per la Capitale, infatti la moneta grezza in primo richiama il sesterzio romano, su cui, ai tempi dell’impero, venivano raffigurate le teste degli imperatori cinte da una corona di alloro. Gianni, come ci anticipa il titolo dell’album, non indossa una corona, ha solamente un taglio di capelli piuttosto vistoso e nient’altro.
Schiacciando il tasto “play” si materializza pian piano sullo sfondo l’Urbe vista dagli occhi di un ragazzo della Garbatella che cresce lì sviluppando un amore viscerale verso la sua città natale e il suo quartiere, fino a farli diventare motivi d’ispirazione.
La prima traccia, “Rolex”, è l’avvertimento che Gianni dà al pubblico spiegando che ora è pronto a fare un agguato al successo per potersi comprare da solo il famoso orologio che denoterebbe a tutti il cambiamento di status symbol; il motivetto simpatico presente nel sample ricorda la musica di sottofondo che si intrasente nelle sceneggiature comiche ambientate Roma. In fondo la vita di Gianni è una commedia, inizia male ma giunge ad un’ottima prima conclusione di capitolo, sì perché seppur Gianni abbia avuto una “Vita amara” racconta che “ha fatto cose di cui va fiero” che lo hanno reso ciò che è oggi, un teppistello “co a visiera coatta, na giacca rubata” che cerca la sua redenzione, un ragazzo semplice a cui basta “na matriciana co’ ‘n quarto de rosso” per essere felice.
L’etichetta da “pregiudicati” lui e suoi compagni ce l’hanno sempre avuta addosso, sia per l’aria spavalda e apparentemente violenta causa di cattivi pregiudizi, sia per i guai avuti con la giustizia, ma seppur Gianni dichiari esplicitamente (in “So finiti i giochi”) che di quello che dicono gli altri a lui non importa, sotto sotto cova della rabbia inesplosa che erutta quando beve una birra di troppo.
Il suo passato da spaccino riemerge continuamente, come rivela alla ragazza con cui parla in “Università” , quando la accompagna a vedere il voto in facoltà, gli studenti salutano Gianni con un occhiolino o dando il cinque perché, nella sua anonimia, era il pusher della zona.
Vendere il fumo è stato un crocevia di transizione fondamentale, molti adolescenti nelle periferie vogliono avere il denaro in fretta per poter scappare dalla loro condizione che li affligge, ma i soldi facili poi diventano un’ossessione, “t’ fann’ perde a capa” (cfr. “Soldi Sporchi” feat. ‘Nto) e ti fanno fare cose che non avresti mai voluto fare. Le tante difficoltà che lo hanno segnato le ricorda tutte, soprattutto non si scorda di chi c’è stato anche nei tempi di magra, nel momento in cui toccò talmente tanto il basso che se fosse vissuto negli anni ‘70 (decennio in cui esplose definitivamente l’organizzazione criminale) sarebbe stato reclutato dalla banda della Magliana. Gli amici veri, la sua genuinità, il calore del suo quartiere e della città hanno spinto Gianni a salire sul treno che passa una volta sola, lasciandosi alle spalle ciò che è stato e guardando avanti con l’audace obiettivo di diventare un nuovo interprete della canzone romanesca, come Gabriella Ferri (cfr. “Chitarra Romana”).
Il disco, breve ma intenso (22 minuti),chiude gloriosamente i sipari con la title track dal tono solenne in cui viene incitato l’ascoltatore a realizzare il sogno che gli batte forte in petto, per poi terminare, sulle note di un piano forte soffuso e i suoni di un sax, con un bellissimo outro in cui racconta uno spaccato della sua infanzia .
Gianni Bismark è il ragazzo violento che faceva casino a scuola, che usciva a vendere i pezzi e che andava a fare a botte, ma che poi ha avuto l’illuminazione di far diventare il rap, la musica che ascoltava ogni giorno, il suo psicologo e il suo pane quotidiano, tanto da lasciare il lavoro da aiuto cuoco per potersi dedicare interamente alla musica.
I featuring ospitati nel disco sono tutti amici di Gianni B, la stragrande maggioranza di loro ha vissuto una parte di Roma o situazioni simili a quelle che ha vissuto Gianni Bismark (Dark Polo Gang, i ragazzi della CXXVI, o meglio Franco 126, Ketama 126 e Pretty Solero), ad eccezione di Izi o di ‘Ntò, che seppur provenienti da altre località, hanno episodi comuni che li lega e che li fa sentire tutti della stessa squadra.
L’attitudine rap di Gianni Bismark affiora e si scolpisce abilmente nei blocchi di marmo che altro non sono che le basi di G Ferrari, il producer che è riuscito a convogliare magistralmente due sonorità non propriamente concordi, generando un elaborato genuino capace di mettere d’accordo sia un ascoltatore che preferisce suoni più crudi sia un amante dei bpm rallentati dei suoni tipicamente trap.
Erano anni che un giovane rapper emergente non si affacciava sulla scena del rap italiano con un’arroganza e un’irruenza altamente giustificate, Tiziano Menghi è realmente consapevole dei suoi mezzi e del suo potenziale, perché “il figlio della lupa”, dal momento che si sente un big, vuole essere riconosciuto come tale, e ora si aspetta che qualcuno gli ponga sul capo la corona che merita, se non di Roma, almeno del suo quartiere, perché con questo disco è riuscito realmente a portarlo in alto.
Di Riccardo Bellabarba e Simone Molina
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