C’era una volta, all’origine del tempo, quando non esisteva il concetto di “ieri” e “domani”, “prima” e “dopo”, un sultano. Tradito dalla sua prima moglie, di cui era follemente innamorato, il sovrano sviluppò un odio incontrollato verso il genere femminile, che, per sua natura colpevole, doveva scontare l’offesa che i regnante aveva subito: ogni notte il re accoglieva nel suo letto una nuova sposa e, per vendicarsi del suo primo amore, la uccideva al sorgere del sole.
Un giorno, Sherazad, la figlia bellissima di un visir, si offrì di giacere con il sovrano misogino: aveva un piano. Ogni notte, non appena i due si infilavano nel letto, la fanciulla raccontava al suo sposo una novella, rimandando però il finale al giorno dopo. Dopo mille e una notte, il re, sfiancato dalla curiosità, ma innamoratosi di questa audace eroina, decise di sposarla realmente, mettendo così fine al suo eccidio.
Oggi le mille e uno storie di Sherazad sono raccolte in un’opera millenaria, che porta il titolo di Mille e Una Notte, ma la cosa che più mi ha affascinato di questo straordinario racconto è legato al valore della parola: solo attraverso le sue parole la fanciulla si salva la vita, e, insieme alla sua, mette al sicuro l’intero genere umano.
La parola salva la vita. Non stupiamoci, qualche secolo dopo, qualcuno racconterà la storia di 10 ragazzi che, per scampare al contagio della peste, si rifugeranno in un podere di campagna per 10 giorni. Anche questi dieci, per sopravvivere alla morte dilagante, decideranno di raccontarsi storie, per il solo gusto di ricordarsi di essere uomini.
La convinzione che il racconto, il testo, la scrittura abbiano doti salvifiche è scritto nel nostro DNA culturale, fa parte degli strumenti che ognuno di noi, inconsciamente si porta dietro.
E non ho potuto fare a meno di ripensare a tutto ciò quando ho ascoltato “Guerra e Pace” di Fabri Fibra.
Ho sempre associato questo disco alla scrittura, a un foglio bianco riempito di parole per cercarsi, per salvarsi la vita: la mappa di sintassi e nessi logici che Fibra ha tracciato per ritrovarsi, come Sherazad ogni notte col sultano, come i giovani fiorentini con la peste.
Forse non poteva esserci niente di diverso dopo “Controcultura”, l’album di “Tranne Te”, del successo senza pari, della corrosiva critica politica al regime Berlusconiano, di Fibra che gioca a scacchi con i diavoli della fama. Quell’album è tutto fuori, tutto eterodiretto, grida all’esterno è sociodipendente.
Nel 2013 Fabrizio è allo zenit del successo, si ferma ed è sulla vetta del mondo, il rapper superfighissimo che ha desiderato e detestato con tutto sé stesso. Guarda verso il basso e la distanza che lo separa dalla terra è incommensurabile: ha le vertigini, chiude gli occhi, come sulla copertina. Bisogna scrivere.
Bisogna scrivere per riconnettersi, per ritrovarsi, per capirsi, per scavarsi nell’animo, per orientarsi nel vortice di una nuova vita e ricordarsi di essere umani. E se la fama fosse la pesta di Fibra? Se il mondo esterno fosse il sultano assassino?
“Bisogna Scrivere” è il titolo della traccia che apre “Guerra e Pace”: la parola è una necessità, un bisogno fisiologico, come respirare, un’icona a cui affidarsi come se fosse la reliquia di un santo. Non è un caso se le prime barre del brano (le prime rime dell’album) siano dedicate al faro di Senigallia: vuol dire riconnettersi con la propria storia, le proprie radici.
È necessario credere, bisogna scrivere
Fabri Fibra – Bisogna Scrivere (Guerra e Pace, 2013)
Per essere invincibile non dovrei vivere
“Guerra e Pace” nasce da un’urgenza, dalla necessità di un’artista al suo settimo album di rivolgere gli occhi dentro sé stesso, di cercarsi nelle sue stesse parole che diventano l’unico vero viatico per trovare un senso in un mondo totalmente confuso: come ogni scrittore, Fibra è solo alla ricerca di Dio.
“Voce” prosegue il discorso e lo concretizza, in un brano scandito, lento, dove le rime non si incastrano in tecnicismi da capogiri, ma vengono pronunciate con chiarezza, sillaba per sillaba, come se nascessero nel momento stesso in cui le si pronuncia, vergini.
In sette dischi che ho fatto ho cercato di dirvi solo una roba:
Fabri Fibra – Voce (Guerra e Pace, 2013)
Raga, lasciatemi fare l’MC, anche se a volte mi viene così così
Ho bisogno di questo foglio, di questo sogno
Di questo pubblico, di questi soldi
Quando le parole non ci sono, non c’è senso di vita, ma solo tanta confusione: è una sensazione di afasia e asfissia, di impossibilità di controllare il reale che diventa un vortice demenziale di facce che affollano un palco degli orrori, dove tutto quello che ci circonda è pericolo, falsità, delazione. “Panico” racconta questa sensazione dall’interno e non è un caso che per confezionare il brano, Fabri convochi colui che aveva dato un suono alle sue paranoie, alle sue “Turbe Giovanili”: Neffa.
Il brano è iconico, giustamente celebre per i livelli stilistici che la penna di Fibra riesce a toccare, catapultando l’ascoltatore in un incubo di immagini disturbanti, che concretizzano il disagio e l’ansia di essere violentati dal panico: un uomo che ti insegue in un corridoio, il vento che ti sbatte contro uno scoglio; nemici che mentre ti strangolano, cantano in coro. In questa carrellata di insensatezza, c’è anche la sensazione di trovarsi senza parole:
Pagina senza testo e punteggiatura
Fabri Fibra – Panico feat. Neffa (Guerra e Pace, 2013)
Tu la chiami bianca, io la chiamo paura
Senigallia e Neffa sono la formula della malinconia istantanea, che in “Guerra e Pace” viene completata da un ospite che fa respirare l’aria salmastra degli Uomini di Mare: Al Castellana costruisce un ritornello blues in “Che Tempi”, il brano in cui Fibra “mette l’esplosivo tra le rime, l’olio tra le parole”.
La lingua è la cura, la pace che calma, ma anche il veleno che la spazza via, la guerra dichiarata: il brano è un lamento corrosivo nei confronti del presente, un richiamo implicito ad un’età dell’innocenza che sembra perduta, a fronte di un mondo di ipocrisie e sovrastrutture, dove conta solo scavalcare l’altro per imporre una presunta superiorità.
Lo sdegno di Fibra si appunta contro la società delle apparenza e delle narrazioni sbagliate, in cui le parole, così preziose per l’artista, vengono strumentalizzate per gonfiare false notizie, per fornire false informazioni.
Se da un lato nel disco sembra che Fibra implori l’aiuto della sua scrittura, come se fosse la mano divina che lo possa sollevare dal baratro, dall’altro Fibra condanna apertamente l’uso deviato che la società fa della parola stessa.
Su questo concetto ruota interamente “Non Credo ai Media”, che funge quasi da opening alla title track “Guerra e Pace”: il brano, su un beat asfittico nella sua monotonia, pone al centro l’incapacità del paese di offrire una concreta realizzazione alle nuove generazioni, costrette nell’immobilismo totale di un paese senza punti di riferimento.
Cosa è stato?
Fabri Fibra – Non Credo Ai Media (Guerra e Pace, 2013)
A 35 anni il Paese mi ha bloccato
Ho comprato un seminterrato per fare lo studio
Per lavorare, il mio futuro
È tutto fermo da mesi, il Comune non risponde
Non posso toccare neanche un muro
Nonostante “Guerra e Pace” sia l’album dell’interiorità, lo sguardo critico di Fibra all’apice della ribalta, il disco non rinuncia agli aspetti più caustici, taglienti e satirici che strizzano l’occhio all’ormai defunto Mr. Simpatia.
In fondo, il settimo disco di Fibra la dicotomia la porta nel titolo e se la riconciliazione con sé stessi sembra essere uno dei tracciati del progetto, la critica forsennata alla società italiana dei primi anni 10 del secolo si fa scrittura: sfacciato e tremendamente esplicito è il dissing a Valerio Scanu in “A Me di te” (che valse al rapper una denuncia per diffamazione), crudeli sono le barre contro le emittenti radiofoniche in “Nemico Pubblico”, più velata e sarcastica la critica a Mario Monti, all’epoca a capo del governo, nella hit “Pronti, Partenza, Via”.
La fama divora, corrode, lede le certezze: costringe l’artista a guardarsi indietro, a ripercorrere i passi che lo hanno portato sulla vetta più alta del successo. In questo percorso al contrario è importante che ogni orma lasciata all’andata corrisponda al piede che la ripercorre al ritorno: è importante ricollegarsi a sé stessi per non sentirsi estranei, alienati, per continuare a riconoscersi. Essere il numero uno è impossibile, e pesante è la testa di chi è costretto a portare la corona.
“La Solitudine dei Numeri Uno” rappresenta forse la traccia più iconica del disco, la summa di un raccontare e di un raccontarsi che Fibra porta avanti in un’ora e dieci minuti di LP: nel brano Fabrizio scrive una forsennata lettera a sé stesso, in cui racconta la storia della sua fama (e della sua fame), la curiosità di una vita tra i riflettori e la velocità di un’esistenza al centro del cono di luce, che sfuma nella consapevolezza di una condizione di profonda solitudine, di inconsistenza di rapporti e persone, che si affollano intorno all’artista per il solo gusto di poter partecipare, anche in piccola parte, al suo successo.
“Guerra e pace” è un disco lungo, è un disco scritto. Ogni segno di inchiostro ha un peso, ha un senso: si lega con quello che lo precede, è gancio per quello che lo segue a creare una complessità indistricabile sia all’interno, che all’esterno dell’artista. Forse è questo il filo logico in cui la gente inciampa: la rete di significati e di connessioni tra le parole, che solo alla scrittore si rendono chiari.
Fibra ha scritto, e in ogni parola ha cercato sé stesso per darsi una spiegazione di una nuova vita in un nuovo mondo. “Guerra e Pace” è Sherazad che sposa il sultano, sono dieci giovani fiorentini che curano la peste: è la scrittura che stringe nodi, che intesse fili, che costruisce una rete sotto il filo sottile delle incertezze sul quale, ogni giorno avanziamo con incertezza. Forse, come Fibra nel 2013, è arrivato il momento di lasciarsi cadere, perché le parole salvano la vita.
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