Recensione di Scusate Se Esistiamo
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«Ho scelto “Scusate se esistiamo” perché siamo in un momento storico in cui basta poco, pochissimo, per essere attaccati e criticati. Prima si critica, e poi forse ci si informa. Tante volte nemmeno ci si rende conto che dietro all’artista, dentro all’artista, c’è una persona. Hai presente quando qualcuno ti sta dando addosso da farti sentire in colpa di esistere? “Scusate se esistiamo” è la mia risposta, piena d’amore, a tutto quell’odio».
“Scusate se esistiamo” parte da questo: un’affermazione del proprio lato umano, quello che spesso è adombrato dalla sagoma possente dell’artista ed è del tutto ignorato durante l’ormai troppo frequente accanimento mediatico. All’insulto gratuito e indiscriminato, l’uomo vacilla, ancor prima dell’artista: è proprio in questo essere messo in discussione, in questo ricevere l’odio, che il rapper spezzino decide di trovare la forza positiva del riscatto. “Questo mondo ha un odio dentro, che non ha mai avuto prima /
Io lo ammetto solo in rima” si legge in Outro (Niente di speciale).
In un periodo in cui l’odio sembra mostrare i suoi frutti più maturi e terribili, Dani Faiv decide di gridare una risposta “piena d’amore”, disposta sui livelli in cui si articola la sua personalità: se stesso, la propria compagna, gli amici – tutti e tre chiamati a registrare – la famiglia e i propri fan (“potrei stare in silenzio, i fan sono le mia voce”). Scusate se esistiamo nasce quindi per portare a compimento un rapporto, quello tra il rapper e la sua fan base, che ha sempre voluto essere di distanza sui social e di vicinanza nella musica, riconquistando quella prossimità che l’isolamento da quarantena ha messo in discussione. Chiuso nel giro di un anno – come dichiarato su Instagram, in una delle rare occasioni di interazione diretta su social – l’album, che aggiunge 11 tracce inedite alle 7 di Scusate EP per una poderosa durata complessiva di 18 brani, vuole rappresentare per il nostro “lacrime e sudore. Come quelle che ho versato per arrivare fino a qui”.
Come notato nel precedente articolo, il gesto di liberazione dalla Machete che questo album condensa significa qualcosa di ben più grande: dispensato della protezione confortevole della crew milanese, Dani è chiamato ad affermare una sua reale identità, che finalmente e definitivamente cristallizzi la sua esuberanza multiforme. Per questo la scelta dell’uomo invece dell’artista, dell’amore invece dell’odio. Possiamo dire che l’operazione è per lo più riuscita, per quanto sia opportuno notare che ad avviso di chi scrive quella traccia profonda di sé che il rapper dichiarava di voler sedimentare nei suoi ascoltatori, sia più nitida nell’EP di introduzione che non nell’album stesso: ragionamento che cade, se si considera che il progetto è stato pensato unitario e compatto, come dimostra anche solamente la somiglianza grafica delle due cover.
Muoviamo da uno dei pregi maggiori: le produzioni. Si è già detto dello spazio sempre più autonomo che Strage si sta scavando all’interno della Machete e, più in generale, all’interno della scena. Chiamato a confermare, egli ha confermato, dimostrando una notevole duttilità nel muoversi tra beat più minimali e aggressivi (“Canna e Playstation “e “Buonanotte“, con l’esordio ufficiale al beatmaking di Gemitaiz) e sonorità più complesse e musicali (il piacevole viaggio estivo di “Weekend a miami” e, soprattutto, il pregevolissimo gospel disposto come “Outro”, prodotto col nome nuovo all’hip-hop di Q3000). A ciò si aggiunga l’incredibile lavoro di Kanesh, amico personale di Dani, che in ben cinque tracce elabora tappeti sonori di gran spessore e ricercatezza, incarnanti l’atmosfera un po’ sospesa e gradevolmente fruibile che accompagna il disco.
Continuiamo con un aspetto rilevante: l’uomo. La sua presa di parola è un inno al sé bambino, alla famiglia, al nonno: è interessante notare che l’apertura (“Mio nonno mi diceva che la calma conta”) coincide esattamente con l’incipit di Teoria del contrario, a significare un importante ritorno trasformativo di cui abbiamo già parlato. Subito, in chiusura di Intro, è condensato il senso profondo della metafora forte del foglio che brucia, in copertina: “Ti senti in colpa se hai fatto tre note, ma oggi ringrazia /
La musica salva, se è fatta col cuore, non serve una regola […] Basterebbe amore, ma è tutto una gara / Per poi diventare il migliore in bara”. Il corpo centrale, poi, è un viaggio tutto sommato piacevole attraverso il rapper più autocelebrativo e a tratti aggressivo, negli spazi della sua nuova (e vecchia) quotidianità: le canne e la playstation con i suoi, gli allenamenti col coach Fabio, le punchlines, i notevoli cambi di flow fini a se stessi; l’amore per Luana, ospitata al microfono, donatrice di “forza nei momenti di debolezza” e di “serenità nei momenti di caos”. Offerto un caleidoscopico ritratto di sé, nell’Outro Dani torna sulla poltrona del saggio, di chi, avendo vissuto e appreso, con la semplicità che gli è caratteristica dispensa come attorno a un focolare i suoi consigli e si liquefà nelle sue paure, attraverso toni a tratti nichilistici; non senza lasciare un sorriso dolceamaro, in chiusura: “Con ‘sto disco spero di lasciare il cuore almeno / Per metà scoperto così giochi le tue carte / Oggi che sempre più musica è fatta per moda / So che solo i sentimenti son la meglio droga / Se vuoi essere una stella, pensa e dopo insisti / Perché hai solo punte, se ti abbracciano, ferisci.”
Chiudiamo con il tema che soggiace a tutto il progetto: l’odio. Lungi dall’essere retoricamente demonizzato, esso è descritto come quella forza negativa che, una volta assorbita e com-presa, può dare il la a qualcosa di positivo, generando assieme alla forza a sé contraria un dubbio, e dunque una risposta solida, un’identità autentica. “Ringrazio chi mi ha odiato, mi ha dato la forza / Senza loro non avrei mai trovato risposta”. La critica è piuttosto a chi fa dell’odio pane quotidiano, disconoscendone la forza positiva: l’hater del social, il critico pregiudicato, l’attaccabrighe fortissimo dietro lo schermo e inesistente dal vivo, colui che fa dell’odio un’ossessione e quasi un dovere. “Chi ti odia è chiuso / Odia più se stesso / Voglion dare la colpa a qualcuno / Basterebbe lo specchio”. Scusare la propria esistenza vuol dire affermarla, e a un tempo invitare chi non la vede a ripensare profondamente la sua. Il concetto torna nello skit Mosche Depresse dove, tramite la voce dello stand-up comedian Filippo Giardina, risuona un già visto ma sempre potente invito ad acquisire la consapevolezza che il social è il terreno della solitudine, della “mosca depressa” – parassita di idoli delle cui vite in fin dei conti non nutre alcun interesse – , del disprezzo del sé più autentico e della sua sepoltura: in una parola, del sacrificio di ciò che ci è più intimo, l’identità. L’esortazione è a svelare il trucco che nascostamente ci fa omologare al tutto, recuperando un’esistenza che si situi su un terreno più profondo e autentico. ‘Disconnettersi dalla solitudine’ è lo slogan che vuole invitare a ricordarsi di essere nato e di dover morire pubblico, recuperando il sacro terreno sociale e non social dell’amicizia e del dialogo.
Lo stesso luogo che Dani Faiv, in fondo, va cercando per tutto il disco: Io non so se tu ci sei, io non se tu ci sei.
Di Marco Palombelli e Alessandro Toso
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