16 anni. Questo è il lasso di tempo che divide “Til The Casket Drops”, terzo studio album pubblicato poco prima della pausa presasi nel 2009, e “Let God Sort Em Out”. In questo frangente, tanto, se non tutto è cambiato. La scena, lo stile di scrittura, i Clipse in primis: dalle origini, affiancati dal sound travolgente e all’avanguardia dei Neptunes (duo di cui composto da Pharrell Williams e Chad Hugo, ora scioltosi dopo alcune controversie legali relative al condiviso marchio registrato), alla consacrazione delle strade con “Lord Willin’”, fino alla scelta dei fratelli Thornton di proseguire come solisti; la parabola del gruppo sembrava ormai nella sua fase discendente.
Nonostante questo, il ritorno del duo di Virginia, col senno del poi prefigurato dalla collaborazione in “I Pray For You”, brano che chiude l’ultimo album di Pusha T “It’s Almost Dry” (2022), ha lasciato tutti senza parole. Prima di entrare nel vivo della musica, merita qualche riga il curatissimo rollout dell’album: una press-run inglobante (da Apple Music a Spotify, fino ad arrivare a Jerry Lorenzo), l’attenzione maniacale ai dettagli, le collaborazioni con i brand più influenti del panorama urban (da Carhartt, a Verdy fino a LV) sono solo alcuni degli espedienti che hanno permesso ai Clipse di arrivare così tanto nel profondo.
Si sono mossi alla perfezione, come una piovra, occupando ogni spazio che questa Cultura considera sacro, a partire dalle strade. Del resto, è sempre stato così, tutto deve partire e finire lì, l’unico giudice di ultima istanza, capace di dividere ciò che è fly da ciò che non lo è. I Clipse questa cosa la sanno benissimo, parte della loro fortuna sta nell’attenzione alla conservazione di un’identità che non dimentica mai le proprie origini, diamanti e Patek Philippe a parte.

Se è vero che squadra che vince non si cambia, i fratelli Thornton non potevano tornare senza la direzione artistica di Pharrell.
“I might not be a shooter, but I’m Mario Puzo, I make the music that I know the gangsters wanna listen to. I know how to do this shit” ha commentato proprio il signor Williams durante l’intervista a Complex, accostandosi all’autore di “The Godfather”, paragone sfrontato ma particolarmente efficace. Difatti, ciò che colpisce durante l’ascolto di “Let God Sort Em Out” è la meticolosa ricerca musicale in ogni singola produzione. Il tocco eccentrico e sofisticato di Pharrell è complementare alla scrittura dei fratelli Thornton, nella quale attitudine grezza e complessi wordplay convivono in perfetto equilibrio.
Le strumentali rendono, infatti, solido il progetto, dando colore e sostanza a quello che ci viene mostrato, ma sono le barre ad aprirci gli occhi. Di questo No Malice e Pusha-T sono perfettamente consapevoli, già in “We Got It For Cheap” rappavano:
“I force feed ya the metric scale
Clipse – We Got It for Cheap (Hell Hath No Fury, 2006)
Rap’s like child’s play, my show and tell
Within each verse, you see the truth’s unveiled”
e in qualità di parolieri, ormai perennemente segnati dalla vita di strada, si fanno portatori di un rap ispirazionale, ad ogni livello. Non è coke-rap spicciolo, né il rigurgito di una narrativa che fa di armi, droga e macchine il suo collante, non è nemmeno musica fast-food, fatta per essere digerita solo quando calda. Al contrario, “Let God Sort Em Out” è una boccetta contenente l’elisir per l’eternità. Un prodotto cucinato con pazienza, trascendentale. La prospettiva è cambiata, le storie sono quelle, ma tutto passa attraverso le menti di due artisti estremamente maturi e perfettamente consapevoli della loro missione.
Non esiste al momento qualcuno capace di dipingere un’autobiografia criminale con simile eleganza e sfacciata irriverenza come fanno questi qui.
“Ballerinas doin’ pirouettes inside of my snow globe
Clipse – Ace Trumpet (Let God Sort Em Out, 2025)
Shoppin’ sprees in SoHo
You had to see it, strippers shakin’ ass and watchin’ the dough blow
Ace trumpets and Rose Mo’s”
Tutto quello che i Clipse toccano diventa quello che tutti vogliono, non importa cosa glielo ha permesso, quello che conta è esserci per testimoniarlo.
L’istinto killer del duo trasuda in ogni strofa, addirittura il titolo del disco è così azzeccato da diventare autoesplicativo: la missione è uccidere la scena e lasciare che sia Dio a pensare al resto. Questi due si muovono da chirurghi, tagliano dove fa male e lo fanno con pulizia e stile.
Tra barre di strada pietrificanti ed intime confessioni, i Clipse mettono su un disco che è destinato a restare.
Troppo spesso sentiamo parlare di come “the industry chases content”, fortunatamente i Clipse “chase feelings”. Dall’inizio alla fine, “Let God Sort Em Out” rievoca le stesse sensazioni di altri classici come “Only Built 4 Cuban Linx”, “Reasonable Doubt” e “It Was Written”, tutto garantendo un’assoluta autenticità e modernità.
Con questo disco, i Clipse hanno dimostrato di essere sopravvissuti al tempo, al pericolo che l’età anagrafica ti faccia suonare fuori da esso, e quindi inadatto. Non è cosa da tutti essere così freschi dopo più di vent’anni di carriera, eppure, Push e Malice sono la prova vivente che intenzione e visione sono la chiave per prosperare davvero in questa industria, rimanendo fedeli alla comunità e alla cultura che li ha battezzati, lasciando in eredità una legacy storica.
Nel corso dell’album riecheggia per ben 14 volte un sample che recita “this is culturally inappropriate”, quasi ad avvertire preventivamente gli ascoltatori riguardo la natura esplicita del progetto o, chissà, a sbeffeggiare una scena dalla quale prendere le distanze e che peccando di superficialità ha tradito sé stessa.
I Clipse sono il figlio prodigo della cultura hip-hop. In un momento storico in cui il genere sta attraversando una delle sue più gravi crisi identitarie, questi decidono di tornare regalandoci un disco generazionale. L’effetto è quello della celebrazione di una cultura decennale inappropriata ma che oggi riempie le runaways di tutto il mondo, e per primo l’intero spazio musicale con una curata e prodigiosa aggressività.
Ad ulteriore conferma del lavoro mastodontico fatto, c’è l’invidiabile lista di featuring presenti nel disco. Quando le principali figure di quest’era musicale decidono di essere nel tuo progetto non è di certo un regalo, al contrario, è perché sei una delle poche ragioni per cui loro sono dove sono.
L’Hip-Hop ha sempre riconosciuto e celebrato il valore autentico dei suoi veri ambasciatori, e l’unico modo in cui è possibile rendere omaggio a chi ispira è condividere con questi lo stesso spazio. I Clipse, ben consapevoli dell’apporto dato a questa Cultura, non hanno patito la presenza di rappers che spesso e volentieri si è dimostrata ingombrante.
Kendrick Lamar, discutibilmente l’odierno padrino del genere, è stato capace di far vendere un intero album con una sola strofa, che i diss interessino o meno (e la cui sola presenza in questo album ha portato i Clipse a rilasciare il disco sotto Roc Nation e non Universal, visti i potenziali attriti che la seconda avrebbe riscontrato rispetto alla “faccenda Drake”).
Nas è da sempre considerato tra i migliori rapper della storia, e la run degli ultimi anni è la prova della sua intangibilità.
Tyler, the Creator, che di featuring non ne sbaglia uno, ha nelle sue mani un’intera generazione.
Stove God Cooks è uno dei rapper più influenti e liricamente pungenti del nuovo millennio.
Eppure, no matter the size, Push e Malice tengono tutto questo in pugno, con l’eleganza dei veterani che possono dire di aver finalmente dominato la tecnica.
Come il Wu-Tang “is for the children”, i Clipse sono “per tutti quelli che vogliono”, e sfruttando questo parallelismo, il duo fraterno si muove per tutto l’album con una tale intesa e una “sophisticated urgency” al punto da riportare alla mente gli sprazzi geniali di Ghostface Killah e Raekwon.
Nessuno sembra poter eclissare questo mostro a due teste, e no, non crediamo sia un take prematuro. Quando ci si trova davanti ad un prodotto così ben costruito, viene da sè tagliare fuori ogni discorso sull’album dell’anno. “Let God Sort Em Out” è un monolite, una delle pietre più solide su cui costruire la ripresa di un genere sofferente, se non la conferma che il rap, e tutto quello di cui si nutre, fortunatamente, non è morto.
Con la collaborazione di Matteo Mirabella
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