5, 4, 3, 2, 1. Il cielo di Napoli esplode e illumina il nuovo anno che arriva: la notte è violentata da uno spettacolo pirotecnico ossesso, irrequieto, spasmodico. Dall’alto le stelle sbiadiscono, mentre un bombardamento forsennato chiude le porte al passato per spalancarsi sugli auspici futuri. In quell’istante, nell’attimo in cui il cielo si è infranto, tra le esplosioni degli spumanti e delle batterie dei fuochi d’artificio, Liberato ha cantato ancora.
Nella mezzanotte del 31 dicembre, sullo scoccare del primo gennaio 2025, Liberato III è stato pubblicato, a due anni e mezzo di distanza dal suo antecedente e a cinque anni e mezzo dal primo capitolo di questa trilogia.
Ogni volta che ho scritto di Liberato ho sottolineato l’elemento del tempo. Liberato detta il tempo dei suoi dischi e ritualizza le sue comparse, slegandole dalla cadenzata pubblicazione settimanale dell’industria odierna.
L’artista napoletano, senza volto e senza comunicazione, appare senza premesse, senza attese e pronostici. Il suo pubblico lo aspetta ogni nove maggio, come una ricorrenza tacitamente concordata e mai smentita, come il miracolo che periodicamente scioglie il sangue di un vecchio santo.
Plasmare il tempo vuol dire risemantizzare la propria musica, collegarla a delle circostanze che la rendono qualcosa di più profondo di una semplice riproduzione. Come un disco che viene pubblicato allo scoccare della mezzanotte più attesa dell’anno, quando nessuno lo ascolterà.
Così Liberato battezza l’anno, un nuovo inizio, il suo. Nella notte in cui le stelle si eclissano nel tripudio pirotecnico, il cantante mascherato pubblica le sue stelle, la costellazione che descrive una rosa nella copertina del disco.
Quando ascolto un disco cerco nella prima traccia il nodo da cui si diramano i fili, il nastro per tracciare la strada nel labirinto, ma questa volta sono stato tratto in inganno. Questo disco va capovolto, dobbiamo partire dalla traccia che lo conclude: partire dal fondo per capire tutto il resto.
“‘O Diario” è una traccia inedita in tutta la produzione di Liberato. Il brano, lungo cinque minuti, depone le melodie, depone le voci che si frammentano, le citazioni e quella scanzonata malinconia onnipresenti nel campionario dell’artista napoletano: Liberato parla, si confida, ci racconta e si racconta.
Ricapitola gli ultimi due anni e mezzo della sua vita, si mette a nudo, soffre: accenna a una relazione conclusa, ad una crisi artistica che si trasforma in una crisi personale; ci parla della sua dipendenza da marijuana, della sensazione di non riuscire a trovare una direzione in un mare senza approdi.
L’anonimato si fa uomo, la voce fuori campo si fa persona: Liberato senza identità mette a nudo il suo corpo invisibile, che nella sua inconcretezza diventa terribilmente tangibile. Su una base che strizza l’occhio ai Daft Punk, l’artista ci parla della sua ora più buia fino al momento in cui, grazie all’aiuto della terapia, è riuscito a riconnettere le sue stelle e ritrovare la sua costellazione. In fondo, bastava scrivere un Diario.
In una delle sue lettere più intime, Seneca, l’anziano filosofo, dà un suggerimento a Lucilio, un giovane che si sta equipaggiando per affrontare la vita adulta. Gli dice: “vindica te tibi”, “restituisciti”.
L’invito è a riconnettersi, a prendere in mano le briglie della propria biga, a dare al proprio tempo la direzione che veramente desideriamo, senza farci trascinare dalla corrente della passività. Sembra essere questo il sottotesto dell’ultima fatica di Liberato: ritrovarsi per non perdere la direzione. Ora possiamo tornare all’inizio del disco.
La traccia che apre “Liberato III” è “Turnà”, un brano che, mischiando Teresa De Sio e le Pussycat Dolls, racconta l’impellente bisogno di tornare: tornare a casa, nella propria Napoli, tornare sulle scene dopo due anni e mezzo di assenza, tornare presente a sé dopo essersi persi nella notte senza stelle. “Turnà” canta a noi, ma canta anche al suo interprete, incarnando forse, più di tutti gli altri brani del disco, l’urgenza di ritrovare il proprio posto nel mondo.
Tra l’inizio e la fine del disco c’è tutto il resto. Il progetto si snoda in un racconto diaristico delle esperienze che hanno segnato il cantante nel corso di questo biennio senza colore: c’è la fine di un’amore su un beat tropical house in “‘A ‘mbasciata” e l’epifania, quasi salvifica, di una nuova lei in “Essa”, che complica le carte in gioco, dando vita all’intreccio amoroso di cui si racconta in “Tre”. L’inadeguatezza di una personalità smaniosa e fuori posto viene urlata da “Novembre”, il pezzo più blu del disco, dove Liberato mette in scena l’irrefrenabile desiderio di fuggire dalla realtà.
Insomma, “Liberato III” sembra cambiare segno rispetto ai lavori precedenti. Se “Liberato” e “Liberato II” raccontavano una Napoli inedita, tra bassifondi e tradizione, ora la pellicola mette in scena l’intimità del cantante misterioso che, pur non mostrandosi mai al suo pubblico, si spoglia del mantello e ci fa vedere le ferite sul suo corpo. Partenope è scomparsa? Pur nulla.
Napoli è l’alfabeto che compone l’estetica di Liberato e questa volta, anche se non è protagonista, costruisce il campo semantico della musica dell’artista. Il video di “Turnà” è un immenso, grande omaggio a Partenope, “Essa” omaggia Maria Nazionale e “A fotografia” cita Eduardo De Filippo: Napoli parla i lati più intimi di Liberato, la città è l’epigrafe del diario dell’artista.
Torniamo alla data. 1 gennaio. Un nuovo inizio, il grande proposito, partire da zero. Gennaio porta nel suo nome il riferimento al dio Giano, la divinità a due facce del pantheon romano: così come il dio, il primo mese dell’anno guarda l’anno passato che si chiude, e scruta con ansia il futuro che si apre.
Forse, nell’intrepida speranza di continuare ad ammirare i suoi astri ritrovati, Liberato ha pubblicato il suo disco nel primo giorno dell’anno neonato, nella speranza di non perdere la strada delle stelle, di non smarrirsi nell’inferno senza fiaccole.
Liberato canta ancora: canta a noi tutti, per noi tutti, ma, mai come prima, canta a sé stesso, per sé stesso.
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