Quando prendi la neve con il palmo della tua mano, sai già che ti farà male, come se ti bruciasse la mano, però la prendi lo stesso perché ti piace.
Si può descrivere con questa immagine, familiare a tutti noi, quello che si palesa alla nostra mente ascoltando Lungomare Paranoia di Mecna. Questo disco, alle orecchie di chi ascolta, rappresenta un cupo velo di tristezza che si stende sulla nostra fragile psiche, coprendola e compatendola, per risanarla e ristabilirla ad uno stato di serenità. Come afferma Daniel J. Levitin in “il mondo in sei canzoni. Come il cervello musicale ha creato la natura umana”, le canzoni tristi ti fanno stare bene per due motivi: il primo è psicologico, nel momento in cui empatizziamo con la tristezza dell’artista non sentendoci soli nel nostro dolore, ma compresi. Il secondo, invece, è neurochimico, in cui il nostro cervello registra la canzone come un dolore autoinflitto per cui deve produrre serotonina, l’ormone della felicità, in modo da controbattere lo stimolo negativo. Semplificando in termini matematici, meno per meno uguale più.
Questo è uno dei motivi per cui, secondo noi, dovrebbero uscire più dischi come Lungomare Paranoia. In sostanza Levitin ci spiega che stare male fa anche bene, ma il vero punto di forza del disco non è tanto l’emozione suscitata in se, ma l’omogeneità che perdura lungo tutti e dodici i brani, rendendo l’album protagonista al posto delle singole canzoni. Un concept album non dichiarato che fa dell’atmosfera l’obiettivo dell’artista: la tristezza è facilmente assimilabile al buio, quello che trasmette Mecna è invece qualcosa di più sfumato, come il bianco sporco della neve, contaminata dall’ambiente circostante nella sua purezza. Sarebbe più semplice per lui e per chi ascolta che le cose fossero o bianche o nere, è più difficile invece interpretare ciò che si prova quando è incerto e sfumato.
Un tepore così freddo l’abbiamo avvertito in rare altre occasioni, e la nostra mente non può fare a meno di ripescare il ricordo di un altro disco che ne ricalca le atmosfere, ma non solo. Stiamo parlando di “808s & Heartbreak” di Kanye West.
Fin dalle due cover ci rendiamo conto di quanto i due lavori abbiano in comune più di quanto pensiamo. In entrambi i casi abbiamo degli artwork in cui il grigiore fa da sfondo al soggetto centrale ricco di colore, che per Mecna è se stesso, spogliato fino all’anima nell’arco del disco, e per Kanye è il suo cuore, ricco di tumefazioni ed imperfezioni volte a rappresentare tutti i traumi vissuti nella sua vita recente, a partire dalla morte dell’amata madre.
Ma i parallelismi non si limitano a questo. Le produzioni volgono per certi aspetti nella stessa direzione, volte a creare atmosfere simili (seppur con ritmi ed ambizioni diverse) aiutate da un sapiente uso di voci esterne, sample e distorsioni vocali massicce, quasi a coinvolgere “gli altri” non presenti nel disco, ma a cui dobbiamo appoggiarci per affrontare quel tipo di situazioni. L’esempio capace di rendere al meglio queste sfumature sono i frequenti outro (come in “Vieni via” e “Nonostante sia”) in cui gli strumenti spariscono lasciando spazio alla sola voce di Mecna, distorta e modificata come se arrivasse da un altro mondo, un altro tempo.
A completamento del lavoro musicale c’è anche la questione concept: entrambi i dischi infatti fanno della costanza emotiva il soggetto, il punto focale che si mantiene fisso dall’inizio alla fine. Potrebbe sembrare tristezza, ma in realtà, come già detto, è molto di più. È una terapia volta a combatterla, alla ricerca della felicità e del caldo che pone fine all’inverno.
Tornando su Lungomare Paranoia, un’enorme punto di forza è la capacità di Mecna di variare la scrittura per arrivare al meglio all’ascoltatore. Alterna infatti situazioni limitrofe all’astratto ad altre estremamente personali, veri e propri storytelling, ma con la costanza di permettere all’ascoltatore di immedesimarcisi e condividere con lui la carica terapeutica del disco. Il manifesto di questa bravura è la seconda strofa di “Nonostante sia”, in cui ci viene raccontata la prematura scomparsa della cugina, partendo da elementi decontestualizzati e di routine (come la chiamata della madre) fino ad arrivare al climax con cui conclude la strofa, rivelando il vero motivo e infliggendo una vera e propria coltellata al cuore di chiunque ascolti il brano, con una carica emotiva potentissima.
Ad ogni modo, non stiamo parlando dei dischi perché sono tristi, ma vogliamo concentrarci sul fatto che entrambi trattino un tema specifico con una costanza raramente vista, per questo vogliamo più dischi come Lungomare paranoia. Dischi capaci di farci piangere quando serve ma anche di farci cantare nei momenti di spensieratezza. Di farci affezionare per la potenza lirica ed emotiva ma anche di catalizzare la nostra attenzione sulla magnifica fattura del comparto tecnico, che sia vocale o puramente musicale.
Questa non vuole essere una critica a tutti gli altri che non lavorano in questa direzione, ma un puro e semplice omaggio ad un disco ed un’artista, Mecna, che viene menzionato troppo poco nei contesti che contano.
Che poi, contare per chi? La musica è l’unica cosa che conta.
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