Recensione di Donda
Donda. Donda. Donda. Qualche giorno fa lessi in rete che in Donda’s Chant il nome che si sente ripetuto in maniera così asfittica per 52 secondi, ricalca il battito cardiaco della madre di Kanye West. Il suo elettrocardiogramma prima di morire. Il cuore di Donda West apre il progetto che porta il suo nome e detta l’intimità all’album che suo figlio ha deciso dedicarle.
Donda è sorprendentemente uscito il 29 agosto, senza preavvisi, distruggendo le disperate attese che Kanye ci aveva imposto. Qualcuno aveva addirittura pensato che non sarebbe mai uscito, che in realtà Donda era la nuova frontiera di commercializzazione musicale, senza copie fisiche e piattaforme di streming: questo progetto sarebbe stato un’esperienza che si consumava periodicamente nei listening party che Kanye organizzava, nient’altro. Ma la musica è arrivata. All’uscita, l’album batte il record di ascolti nelle prime 24 ore, con oltre 82 milioni di stream su Apple Music; contestualmente stabilisce il primato di tutti i tempi, balzando primo in classifica in 152 paesi. Il mondo intero in quel giorno ascoltava Donda, tutto, contemporaneamente.
L’impossibile sembra si sia reso realtà. Ma cosa si cela dietro il mito? Il dolore di un figlio per la morte di sua madre. Dietro un sogno c’è una donna, e dietro ogni eroe c’è un uomo mortale. Donda West muore il 10 novembre 2007, a 58 anni, a casa sua, il giorno dopo essersi sottoposta a una serie di interventi di chirurgia estetica. Il dolore della perdita infuria e influenza tutti i prodotti artistici del figlio, a partire da 808 & Heartbreak, di poco successivo alla scomparsa. Kanye perde il faro della sua notte, il suo punto di riferimento dall’età di tre anni. Donda smette di essere terrena, ma nella notte più buia del dolore diventa guida e bussola: Kanye si rifugia nella fede cristiana, nel suo disfuzionale rapporto con un Dio che deve venire a patti con le sregolatezze di una vita di eccessi, e sua madre, diventa vero e proprio oggetto di devozione. Donda è l’ode che Kanye solleva a sua madre, l’opportunità per purificarsi dai sensi di colpa e dai non detti obbligati dalla scomparsa, dai recessi di un’anima in continua lotta con se stessa e con il mondo.
Donda nel disco c’è. E non solo in senso metaforico. La signora West parla, non solo nell’intro dell’album dove ripete il suo nome. La ascoltiamo leggere una poesia di Gwendolin Brooks in Praise God e qualche traccia dopo, nella title track dell’album, la apprezziamo riflettere sull’importanza che la musica di suo figlio ha avuto non solo per lei, ma anche per le generazioni a venire. Voce della coscienza e guida spirituale, Donda più che madre sembra una funziona di Kanye stesso, il nucleo sensibile del suo Io, la più profonda parte di sé.
E se questo discorso fosse applicabile anche ad altri? Se non fosse una semplice confessione madre – figlio? Donda dura 1 h e 49 minuti, per un totale di 27 brani e 30 ospiti. Kanye già aveva dato vita ad una struttura del genere: The Life of Pablo conteneva 20 brani, per la durata di 1h e 10 minuti e 20 collaborazioni. Nelle tracklist di entrambi i progetti i featuring non vengono indicati, anzi, in alcuni brani lo stesso Kanye non è presente, o se compare è in una porzione piccolissima dei brani. Come se l’album non fosse esclusivamente suo, Kanye più che di autore, assume la postura del direttore artistico di uno spazio musicale comune. E questa condivisione avviene nel nome di Dio, o meglio di Donda. Leggendo i testi, si può notare come quasi tutti gli ospiti fanno i conti con la propria religiosità, intima o ostentata che sia: Baby Keem (in Praise God) lamenta della strumentalizzazione del concetto di Dio; Jay Z (in Jail) implora il Signore di liberarlo dalla sua prigionia; Lil Baby (in Hurricane) attraversa l’oscurità della sua depressione. Kanye chiama a messa tutti i suoi ospiti, al cospetto di Donda, per tirare la somme delle loro vite a cavallo tra dannazione e gloria eterna.
A differenza del precedente Jesus is King, Donda porta avanti un discorso relgioso meno teologico e sistemico, privo della pretesa di fondare una “dottrina di Kanye”, ma più intimo e personale. Ogni ospite, Kanye incluso, declina la religione a modo proprio, facendo in modo che Dio resti un tema con cui confrontarsi nel privato, più che una dottrina da seguire pedissequamente.
Nonostante l’aura sacra che circonda il disco, Donda ci restituisce un Kanye più vicino a The Life of Pablo, che a Jeesus is King. Campionamenti, cambi di beat, cambi di flow, outro dilatate e skit rappresentano l’intelaiatura sonora di un album fortemente identiario: sorprende la drill di Off the Grid, ma rincuora trovare un Kanye intrisecamente rap in Heavens and Hell. Tra il campione della leggendaria Laurin Hyll in Believe What I Say e il cameo di Pop Smoke in Tell the Vision, Kanye dimostra ancora di essere una perfetta macchina del suono , in grado di assorbire, digerire e rielaborare qualsiasi suono entri in contatto con lui.
Nonostante tracce che convincono di meno, che si allontano dal discorso generale dell’album come God Breathed o Ok Ok, in Donda la musica vince sotto tutti i fronti, ignorando qualsiasi logica di mercato. Tra brani di 9 minuti e intro monoparola, in Donda la superficialità ne esce sconfitta, e trionfano gli artisti. Dovremmo essere grati a Kanye West. Amen.
Di Francesco Palumbo
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