Non ho mai nascosto che, pur vivendo di musica hip hop, il mio primo grande amore fu il punk.
La nostra è stata una relazione difficile, fatta di alti e bassi, tra lo scoprire grandi capolavori del passato e l’interfacciarmi con le nuove leve che negli anni 2000 e ’10 facevano capolino nella scena.
Quel che questo genere è stato per me e per tutti coloro che han deciso di seguirlo, non è facile da spiegare. Croce e delizia dell’essere alternativi, può fascinare come repellere, soprattutto durante l’adolescenza, periodo verso il quale il punk si è posto come uno dei generi di riferimento.
Nell’ultimo periodo, la tendenza a rispolverare il passato, presente tanto in Italia quanto nel resto del mondo, ha riacceso l’attenzione sul genere. Da un lato alcuni ritorni sono stati graditi e apprezzati come quello dei Blur o quello dei Club Dogo; dall’altro, molto spesso, ci siamo trovati davanti ad operazioni nostalgia poco ispirate e che al di là del nome, non hanno reale appeal, come i Blink-182 o i nostrani Articolo 31.
La paura di venir delusi anche dai Finley, storico gruppo entrato nella cultura popolare grazie alla hit “Diventerai una Star“, non era molta da parte mia, ma non perchè avessi cieca fiducia nel progetto, ma perché il revival punk che stiamo vivendo mi ha incattivito verso il genere e verso le sue nuove derivazioni.
Senza aspettativa alcuna, non c’è nessuna paura.
Già nel 2019 abbiamo parlato di un possibile ritorno del punk, parlando di tendenze, crossover e trattando artisti come Naska (quando ancora il loro progetto era in fase embrionale), ma trovarci dopo cinque anni di fronte ad una realtà che ci ha dato ragione è senza dubbio una grossa soddisfazione.
La soddisfazione comunque aveva però il retrogusto amaro di qualcosa di “snaturato”, di diverso da come ce lo saremmo aspettato, da come io me lo sarei aspettato. Troppo pop, troppo amore, poca politica e poca collettività. Mancava quel sentirsi parte di qualcosa che le nuove leve non hanno ancora saputo creare, e che i veterani ormai non sentono più essendosi chiusi sempre di più nelle loro nicchie.
Poi i Finley annunciano il loro ritorno al punk “duro e puro”, proprio in compagnia di Naska, e come Marra e Guè chiamarono Sfera in “Santeria”, i Finley passano il testimone al punkabbestia marchigiano e ci presentano il primo volume di “Pogo Mixtape Vol.1“.
Ora facciamo una cosa che abbiamo già fatto un’infinità di volte, riflettiamo sul concetto di mixtape.
“Ma ancora?” Sì, ancora, perché quel “Mixtape” serve a presentare la verve sperimentale del progetto: quasi ogni brano fa il verso o campiona un grande classico della musica punk. Dalle più ovvie, come “All Star” degli Smash Mouth in “Politically Correct” con Benji alla loro stessa “Diventerai una Star“, passando per NOFX e The Clash.
La scelta della nomenclatura infatti è centrale. Nel punk, più che i mixtape erano diffuse le complilation che, come “i loro cugini più hip hop”, sono andate a sparire col tempo e con l’arrivo delle piattaforme streaming. Realizzare quindi un “mixtape punk” con alcune delle caratteristiche dei classici mixtape rap, è un messaggio di unione per le due scene, un’ennesimo ponte che va a connettere le due rive.
Anche il suono non è cristallino, ha lo sporco ed il grattato delle vecchie registrazioni outakes del garage punk anni ’90. La definizione di mixtape si sposa benissimo quindi con l’operazione messa su dai Finley, della quale abbiamo parlato tanto, ma senza mai esprimere un giudizio reale.
Quindi? Com’è “Pogo Mixtape Vol. 1”? A mio parere, bellissimo.
Troppo poco? Cerco di argomentare meglio.
È una delle rare operazioni nostalgia dove l’operazione, appunto, non è la ragion d’essere del disco, ma solo un pretesto per fare musica insieme. E non lo avrei mai detto.
Sarà per le aspettative basse ma ho trovato l’ascolto folgorante: dopo dieci anni mi sono ritrovato in camera da solo a ballare e saltare con le cuffie, come quando ero un ragazzino che scopriva i Punkreas o i Fast Animals and Slow Kids. Che sono nel disco, tra l’altro.
La genuinità che permea ogni traccia del disco è la principale fonte di divertimento del progetto, i generi dei vari ospiti si sposano alla perfezione col pop punk dei nostri, dall’hit autoironica “A me piace il Punk Rock” con Ludwig, all’emo punk dei FASK in “Bud Spencer“.
Note di merito per “F.A.Q.” e “I Miei Amici“, la prima, in collaborazione con DIVI è un inno collettivista in pieno stile NOFX (o Derozer visto che siamo in Italia) che si stacca completamente da quel che è il punk nel 2024 lanciandoci indietro nel tempo per poi estrarci da esso, dimostrando che i valori del punk, quali l’accettarsi ed il voler essere liberi, sono atemporali e quindi eterni.
La seconda invece, in collaborazione con i Punkreas, è probabilmente la traccia “più punk in senso stretto” del disco ed è una goduria per le orecchie sentire lo scambio generazionale tra i due gruppi sopra quelle chitarre così SKA.
Questo è il disco manifesto della nuova scena punk italiana. Scena che io ho sempre seguito ed amato. Praticamente ogni artista qua dentro è legato ad un mio ricordo o periodo particolare, quindi è ovvio che io, grazie alle bassissime aspettative forse, sia entusiasta di questo progetto.
Ma al dì là dell’affetto, rispetta ogni canone del punk, toccando tanti sottogeneri e sperimentando molto. Riesce ad essere un ottimo entry point, ma anche un’interessante sperimentazione per chi è avvezzo al genere.
Ed è bellissimo vedere i Finley al centro di questo ritorno così dirompente. Dopo tutti questi anni, finalmente ce l’hanno fatta, i Finley sono diventati (tornati forse?) delle Star.
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