RAP NAPOLETANO E DIALETTO CAMPANO: DALL’UNDERGROUND ALLA TOP 10 SENZA COMPROMESSI
“Fotti chi dice torna al dialetto che è meno finto,
-Luchè, Per la mia città (2015)
come se mi volessero chiudere in un recinto”.
Sembra ieri che Luchè rispondeva alle polemiche di fan indignati dalla scelta di mettere il dialetto in secondo piano nella sua carriera solista. L’ex Co’ Sang, per quanto ben consapevole del riconoscimento leggendario ottenuto in tutta Italia grazie alla musica in dialetto, sottolineava quanto rappare esclusivamente in napoletano potesse circoscrivere troppo il suo pubblico. A sette anni di distanza dall’uscita di questa canzone, abbiamo avuto la conferma che quel recinto è stato definitivamente sfondato.
Sono infatti tantissimi gli artisti della scena campana che sono riusciti a far arrivare in tutta Italia la loro musica nonostante le specificità regionali della parlata: nel mainstream abbiamo nomi iconici come Clementino e Luchè, che hanno sempre alternato brani in italiano e in dialetto, o Geolier, rapper classe 2000 tra i più in hype in Italia, che, pur non rinunciando al napoletano, continua a macinare decine di dischi di platino.
Come lui stesso rileva, senza troppi peli sulla lingua, «uno ‘re miglior rapper italian nun fa ‘o rap in italian».
Poi abbiamo ancora Speranza, rapidamente emerso combinando casertano, italiano, francese e romanì con un’energia straordinaria, o il collettivo SLF, formato da Vale Lambo, Lele Blade, Yung Snapp, MV Killa e Niko Beats, che, dopo vari successi solisti, ha confermato di essere una realtà fresca e innovativa. Ci sono capisaldi della vecchia scuola, come Speaker Cenzou e i 99 Posse, e non mancano neanche giovani promesse: tra gli emergenti, J Lord e Vettosi, artisti rispettivamente di Casoria e Secondigliano, hanno già attirato l’interesse di giganti del rap italiano.
Questi sono solo alcuni degli innumerevoli rapper che non sono scesi a compromessi con la lingua standard, scoprendo nel dialetto una dimensione lirica più completa per costruire le loro narrazioni.
Difatti, il dialetto non presenta differenze formali con l’italiano, se non in termini di riconoscimento politico e di ruolo “informale” attribuitogli dai parlanti: non è più povero da un punto di vista lessicale e ha le stesse potenzialità espressive della lingua ufficiale, anzi, talvolta risulta anche più comunicativo e letterariamente efficace.
Inoltre, essendo varietà linguistiche territorialmente meno diffuse rispetto alla lingua nazionale, quando usate, queste parlate trasmettono un fortissimo senso di identificazione sociale: perciò, il dialetto non può non prestarsi bene al rap, genere strutturalmente legato alla rappresentanza del proprio luogo d’appartenenza, che sia una via, un quartiere, una città, una regione o una nazione.
E in effetti, in tutte le regioni d’Italia ci sono validissime realtà locali che fanno rap in dialetto, che però, il più delle volte, rimangono nell’underground. La domanda che ci siamo fatti è “come mai il campano è l’unico gruppo di dialetti che nel rap è riuscito a diffondersi così tanto?”
In primo luogo c’è da dire che le varietà regionali della Campania, grazie all’approssimazione delle vocali all’inizio e, soprattutto, alla fine delle parole, si distinguono per una pronuncia estremamente fluida: il risultato finale in una canzone rap è una delivery così scorrevole da richiamare più volte non tanto i flow dei connazionali che ricorrono all’italiano standard, quanto quelli dei colleghi francesi o statunitensi. E, in esecuzioni del genere, anche la minor comprensibilità passa in secondo piano rispetto alla scioltezza delle barre.
Sicuramente sarebbe riduttivo limitare al rap un discorso di musicalità del linguaggio, che riguarda in generale tutta la musica campana. Non è infatti un caso che questa solida e trasversale tradizione popolare abbia in parte già abituato l’orecchio dell’ascoltatore medio: pensiamo ai successi transgenerazionali del cantautorato napoletano o del neomelodico (genere quasi imprescindibilmente eseguito in dialetto campano, anche da autori provenienti da altre regioni d’Italia); già allora, la barriera linguistica era scarsamente presa in considerazione e, difatti, la musica ha rotto con facilità i confini regionali.
Ancora oggi, il grande solco scavato dalla tradizione rimane un’ispirazione assoluta per il rap della regione, che ne ha accolto orgogliosamente l’eredità.
Infine, va presa in considerazione l’estrema spettacolarizzazione cinematografica e televisiva che è stata fatta del dialetto napoletano.
La serie tv Gomorra, nonostante le numerose controversie legate al ritratto che è stato fatto delle periferie di Napoli, ha avuto innegabilmente il merito di far arrivare la parlata locale, a volte addolcita ma mai tradotta (se non nei sottotitoli), a milioni di spettatori; infatti, i protagonisti della serie sono personaggi tendenzialmente al limite della dialettofonia e farli parlare in italiano avrebbe rappresentato un’irreale forzatura.
La fortuna di Gomorra è l’emblema della cosiddetta glocalità, ovvero l’atteggiamento d’interesse per gli aspetti delle realtà locali, in contrapposizione alle tendenze globalizzanti: in altre parole, il successo internazionale della serie è stato conferito proprio dalla particolarizzazione delle vicende, che raccontano archetipi universali in contesti tanto circoscritti e determinati quanto riconoscibili e oramai perfino iconici.
Dunque il dialetto, da possibile limite, è diventato un tratto distintivo vincente.
Lo stesso è avvenuto nella scena rap della Campania, che, grazie a un’indubbia riconoscibilità e freschezza linguistica, a un’attitudine credibile e a un immaginario ben definito, è riuscita non solo a portare avanti con rispetto la propria tradizione musicale, ma a imporsi stabilmente ai piani alti delle classifiche italiane.
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