Nell’immaginario collettivo il 2016 è stato un punto di svolta, qualcosa che ha cambiato per sempre la percezione di ognuno di noi nei confronti della musica urban. Per dirla alla Evangelion, la scena 2016 è stata il second impact del rap italiano e da allora è tutto diverso. Per avere un’idea dell’impatto basti pensare che termini slang come “bufu” ed “eskere” nonostante oggi sembrino il linguaggio di un antico popolo indoeuropeo sono a tutti gli effetti dei neologismi accreditati da vere e proprie istituzioni come l’Accademia della Crusca.
Abbiamo seguito negli anni questo gruppo di rapper giovanissimi e affamati farsi strada tra i grandi e mangiarsi la scena, a tal punto da diventare un esempio per le nuove leve. Ma qual era la loro vera forza? La fame? Sicuramente, ricordiamo benissimo la fotta di Ernia in “No Hook EP” o di Tedua in “Orange County” ma no, c’è qualcos’altro che è riuscito ad entrare nel ricordo vivissimo di tutti i fan più affezionati del genere. È quel senso di connessione che rendeva la scena unita, quel fremito, quel senso di eccitazione che soltanto le novità sanno dare: quella maniera di fare musica quasi primordiale (che oggi molte volte manca) senza la piena consapevolezza di star cambiando le regole del rap italiano.
Dopo quasi sei anni quel periodo ancora esercita un’attrattiva magnetica; un posto magico nella nostra mente dove Achille Lauro canta “Barabba” in uno scantinato e non è ancora salito sul palco dell’Ariston. La scena 2016 genera quindi una sorta di “nostalgia istantanea” verso qualcosa di estremamente recente, Tedua in “Lo Fi For U” gioca proprio su questo, raccontando le storie e i “bimbi” di quel mitico passato attraverso flashback sonori che stimolano i nostri ricordi. Facendo dei balzi sulla linea temporale tra 2016 e 2022, oggi c’è bisogno di ultimare quel percorso iniziato sei anni fa magari con un nuovo rinnovamento, la musica è piena di terre inesplorate che il rap non ha ancora toccato e non deve fossilizzarsi su un solo modus operandi soprattutto ora che ha i mezzi per spiccare il volo.
La riscoperta deve passare attraverso una propria forza identitaria fuori dalle tendenze del mercato musicale. Quello che è accaduto nel 2016 non deve essere qualcosa di passaggio; hanno sfondato le porte ora sta alle nuove leve non intorpidirsi e continuare a camminare. Sick Luke in una recente intervista per Noisey ha dichiarato a proposito del periodo 2016 e le differenze con la scena attuale che “non si fa più tanto rumore con la musica” abbozzando una leggera critica ai “ragazzi nuovi” che sperimentano poco e cercano un successo facile sentendosi già “arrivati” firmando da subito contratti che vincolano l’artista a discapito della musica. Effettivamente la forza motrice punk della Dark Polo Gang era proprio il loro modo di fare musica anticonvenzionale, che gli permise in breve tempo di raggiungere un successo mainstream quasi da indipendenti (i loro dischi non erano neanche su spotify).
Guardando ad oggi invece si punta più sul prodotto che sulla musica e il successo di un’artista è definito da classifiche e top chart; quindi, di conseguenza ci si può chiedere: la scena 2016 ha davvero cambiato le cose? Se banalmente la risposta può essere sì, vedendo come sono andate le cose, quell’era del “tutto può succedere” ha lasciato spazio alla piattezza di una musica “usa e getta” che non deve diventare uno standard. Dal 2016 a oggi sembra esserci stata un’involuzione creativa, la piega che sta prendendo il rap sembra virare sempre di più verso una comfort zone imposta anche da un mercato musicale italiano che molto spesso guarda con sospetto alle novità e alle sperimentazioni costringendo spesso i rapper a snaturarsi.
Il rap per non morire ha bisogno di contaminarsi questo è ovvio ma una volta raggiunto il grande pubblico non deve diventare un genere di passaggio. Forse è anche per questo che si guarda con tanta nostalgia al 2016, una “golden age” in cui la musica era spontaneamente fatta dai rapper e non dalle classifiche, andando quasi a seguire il principio estetico di arte per l’arte. Negli ultimi tempi sta accadendo lo stesso con la drill, genere che (in Italia) sembrava essere una boccata d’aria fuori dagli schemi è diventato un sottogenere abitudinario dove gli stessi rapper ne restano incastrati incapaci di rinnovarsi. Di conseguenza la domanda sorge spontanea: i rapper che ascoltiamo oggi avranno lo stesso seguito, ma soprattutto avranno qualcosa da dire tra sei anni? Il rap italiano ha bisogno di stelle non di meteore.
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