“The College Dropout” è un disco importante per svariati motivi: innanzitutto è l’esordio discografico di uno dei rapper più iconici e riconosciuti dell’era contemporanea e, al contempo, è l’inizio di una vera e propria rivoluzione del genere ad opera dello stesso artista. Ma andiamo con ordine.
Per il sottoscritto non è mai facile parlare di Kanye West, ma credo per nessuno in realtà. Quando ci si trova d’innanzi ad un mostro sacro del genere si prova sempre una sorta di timidezza, di paura a parlarne, un po’ per il rischio di essere linciati dai fan, forse mai come in questo caso al limite della devozione (parlo per esperienza personale), un po’ perché si ha sempre il timore di non rendere abbastanza giustizia alle enormi gesta di questa categoria di artisti, etichettati spesso e volentieri con la definizione di “leggende”. Ritengo però “The College Dropout” un album troppo importante per permettere alle paranoie di impedirmi di cercare anche in minima parte di rendergli omaggio, sperando di accendere una scintilla di curiosità in chi non vi fosse mai entrato in contatto.
L’anno di riferimento è il 2004, più nello specifico il 10 febbraio, e Kanye non è altro che un producer di belle speranze che da Chicago è arrivato nella Grande Mela per farsi conoscere. Il primo grande passo si trova nei beat creati per il rapper più in voga del momento, Jay-Z, e il suo “The Blueprint” (altra pietra miliare di cui prima o poi vi parleremo), quattro tracce tra cui spicca la controversa “Takeover” contenente dissing ai Mobb Deep e a Nas, all’epoca vera e propria istituzione newyorkese.
Ma questo non era abbastanza. Oltre a essere un ottimo produttore e ad essere riconosciuto come tale, il giovane Ye aveva anche velleità da rapper, non viste di buon occhio dalla sua casa discografica, che non lo considera all’altezza di stare sulla base. A tutto ciò va aggiunto che i beat prodotti per gli altri non rappresentano pienamente l’idea di musica che già ha, risultando si ottimi, ma non particolarmente diversi da quelli di molti altri producer. Le caratteristiche che poi lo porteranno a cambiare le regole si stanno appena affacciando nei suoi progetti.
Nei tre anni che separano “The Blueprint” (2001) e la pubblicazione di “The College Dropout” la vita lavorativa di Kanye prende i tratti di un’epopea epica; in continua lotta con le sottovalutazioni dell’industria, andando letteralmente di porta in porta per far ascoltare il proprio lavoro a chi nel settore ci lavora. Non solo tende i fili della sua carriera prendendo decisioni ma riscontra anche pareri positivi in successione che porteranno anche, chi di dovere, a cambiare ricredersi fermamente.
È a questo punto che il mondo intero si accorge delle possibilità di questo artista, sia dal punto di vista della produzione che da quello della scrittura.
Fin da subito, con la piena libertà creativa dalla sua, emerge l’anima e l’idea che risiedevano già da tempo nella testa di Ye, con quelli che poi saranno i tratti distintivi della sua produzione che rivoltano la musica rap come un calzino appena uscito dalla lavatrice.
Il ritornello cantato che diventa parte integrante e protagonista del beat in “All Falls Down” e “Never let me down”, l’autotune che fa da sfondo in “Jesus Walks”, le voci pitchate che si rendono suoni e gli elementi presi dal gospel di “Two Words” e “Trough The Wire”, e potrei continuare per paragrafi interi a parlare di come tutti questi elementi diventino ora protagonisti e ora comparse, rimescolandosi in continuazione per trasportare l’ascoltatore in tutte le sfaccettature della personalità artistica di Kanye.
Ma “The College Dropout” non è solo produzioni, altrimenti avrebbe tranquillamente potuto essere il disco di qualcun altro. Se ci fermiamo un attimo a ragionare sul titolo ci accorgiamo come sia quasi uno stereotipo del percorso scolastico di tanti ragazzi che poi diventano famosi attraverso la loro sensibilità all’arte, come attori o, appunto, cantanti.
“Dropout” in italiano diventa “ritirarsi”, di conseguenza “The college dropout” risulterebbe “ritirarsi dal college”, abbandonare gli studi per seguire il proprio sogno o, più semplicemente, perché non ci si sente portati. Come lo stesso artista ci dice in “School Spirit”:
“Told ‘em I finished school, and I started my own business
Kanye West – School Spirit (The College Dropout, 2004)
They say, “Oh, you graduated?”
No, I decided I was finished
Chasin’ y’all dreams and what you’ve got planned”
In questi versi YE ammette di non sentirsi tagliato per quel percorso “canonico” del college, ma di aver rischiato tutto inseguendo i propri sogni. Tema che, tra l’altro, ritornerà anni dopo con il disco “Graduation”, letteralmente “la laurea”, dove Kanye percepisce una sorta di punto d’arrivo, di maturazione rispetto a questo suo esordio.
Ma, ancora una volta, “The College Dropout” non è solo questo. È anche la capacità di sovvertire dei dogmi impliciti del genere che fino a quel momento hanno dettato legge.
I rapper, fino a quel momento, dovevano essere dei duri, dei gangsta, raccontare di quanto la strada li abbia percossi e di quanto loro ne siano usciti vincitori, dipingendosi come duri senza emozioni e senza paure di alcun tipo. Ecco, Kanye sa di non essere questo, sa di essere cresciuto in una famiglia tutto sommato rispettabile che l’ha sempre tenuto lontano da certe vicende e che l’ha amato come ogni figlio meriterebbe.
L’artista ama sua madre follemente e gli è infinitamente riconoscente per avergli permesso di diventare quello che è; non ha paura di parlarne o di ammetterlo nelle canzoni, sfondando quella parete che separa il rapper dall’essere umano. L’esempio più rilevante è senza dubbio “Family Business“, una vera e propria lettera a cuore aperto alla sua famiglia.
Questa tendenza nella scrittura, seppur all’apparenza marginale, porterà strascichi di enorme spessore. Prendiamo l’esempio della sfida alle vendite tra il suo “Graduation” e “Curtis” di 50 Cent, all’epoca maggior esponente del gangsta rap, entrambi pubblicati l’11 settembre 2007, con una vittoria schiacciante per Ye.
Quel singolo evento decreterà la fine del dominio di Curtis Jackson e di quella tipologia di rap. Vittoria che ha portato ai giorni nostri all’esistenza di tutta una serie di artisti che hanno fatto dei pezzi love e del sound più morbido rispetto al passato i propri cavalli di battaglia.
Potrei dilungarmi ancora per molto, ma credo di aver parlato dei punti di maggior rilievo, e vorrei evitare di risultare prolisso e rendere il tutto meno interessante. Se ancora non foste convinti di quanto “The College Dropout” sia stato rivoluzionario, vi basti che l’artista rap probabilmente più polarizzante di oggi, Travis Scott, al live a Roma in cui ha presentato quello che ad oggi è il suo album più importante, “Utopia”, ha detto testualmente:
“There is no Utopia without Kanye West, there is no Travis Scott without Kanye West”
(Non ci sarebbe “Utopia” senza Kanye West, non ci sarebbe Travis Scott senza Kanye West)
Definendolo “The greatest of all mo*****ckin time”, letteralmente “il più grande di tutti i fo***ti tempi”, significa che qualche cambiamento, questo disco, deve averlo portato per forza. Dopotutto, “There is no Kanye West, without “The College Sropout””.
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