Il 29 marzo Ted Bee, membro storico della Dogo Gang, ha pubblicato Marcos, progetto di 7 brani arricchito dalle collaborazioni di Danno, Fu, Yung Stalin (P38 gang), Lily Waterfall e Kento. Il titolo è un esplicito riferimento al subcomandante Marcos, rivoluzionario messicano, ex portavoce dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, rimasto nell’anonimato grazie alla maschera che indossava in pubblico.
Ho avuto la possibilità di intervistare il rapper, approfondendo il concept del progetto, ma parlando anche di conscious rap, reunion della Dogo Gang, e ovviamente di storytelling, tratto distintivo della scrittura di Ted Bee, a cui ha conferito una particolare connotazione storico-cronachistica.
Quando hai annunciato Vite Parallele nel 2023 hai scritto che molto probabilmente sarebbe stata la tua ultima fatica: cos’è che ti ha spinto a pubblicare Marcos?
Ottima domanda, nella mia stretta cerchia di amici tante persone mi dicono proprio «minchia ogni volta che fai uscire qualcosa dici che è l’ultima e poi comunque vai davanti» (ride, n.d.r.). Se vai a recuperare quel post là, infatti mi sono un po’ parato il culo dicendo che avevo utilizzato l’avverbio “forse” per non dare nulla di definitivo e lasciare aperte altre possibili strade.
In realtà Marcos doveva essere un EP, poi è diventato un album perché ormai Spotify riconosce come tale un progetto di 7 tracce. Avevo detto che Vite Parallele era l’ultima roba perché, avendolo gestito e lavorato, oltre che da indipendente, senza featuring, mi aveva impegnato molto, soprattutto da un punto di vista mentale.
C’era la volontà di ritrovare un po’ di entusiasmo e fare qualcosa di completamente diverso, lavorando a cinque singoli, tutti con collaborazioni, anche un po’ per dimezzare la fatica se vuoi: quindi la mia idea iniziale era uscire periodicamente, che da un punto di vista discografico sarebbe stato anche più sensato… purtroppo sono un boomer, mi sembra che pubblicare un singolo sia un po’ buttare via la roba, a me piace aspettare l’uscita di qualcosa di più corposo e dedicarle più tempo! Poi mi è venuto in mente che da qualche lavoro passato avevo parcheggiati dei pezzi validi e a quel punto ho deciso di pubblicarli tutti insieme.
Volevo proprio chiederti di approfondire il sound del progetto: da 60-70 con Danno, che rielabora un sample e un concept dei Cosang, a La Notte con la chitarra acustica e il ritornello cantato, passando per Apocalypse che ha una produzione più punk, ho come avuto l’impressione che tu volessi racchiudere più sfaccettature possibili del tuo percorso artistico. Come sono state selezionate le produzioni?
La mia idea era di avvicinarmi al mondo di qualcun altro e da questo deriva un po’ la diversità di suoni che tu segnali.
60-70 me l’ha proposto in realtà proprio Danno, perché l’anno scorso quando ha sentito Vite Parallele, che era tutto giocato sulle coppie di personaggi della storia italiana, mi fa «dovremmo fare un pezzo proprio così rispetto ispirato a quello dei Cosang 80-90, seguendo la tua logica del racconto a coppie ma sugli anni 60-70 in Italia».
Allora, recuperando il sample originale di Nicola Piovani, quell’idea viene da lì. Lo stesso vale per Apocalypse con Lily Waterfall, cantante con cui sto collaborando in questo momento, perché il mondo punk rock fa parte di me e da una certa età in poi per me è stato molto formativo e mi ci trovo molto a mio agio.
Per il resto, io sono sempre stato abituato molto a fidelizzare con degli specifici produttori ancor prima che questo andasse di moda. Negli ultimi 2-3 lavori c’è tanto contatto con Uraz, che ha prodotto quattro beat su sette: lui ha una modalità di produrre molto particolare, ancora fa tutto con l’MPC.
Bellissimo che il pezzo con Danno sia nato da un feedback su Vite Parallele!
Infatti quel pezzo lì l’ho fatto uscire come singolo “Ted Bee & Danno”, perché è quasi più suo che mio! Abbiamo scherzato anche tra di noi che mi sono preso la parte un po’ più difficile degli anni 60, infatti se ci fai caso fa una strofa più lunga, m’ha detto «guarda, io non riesco a stare nella 16» e io gli ho detto «guarda, io la mia strofa però non la tocco più, tu allungala come cazzo ti pare, ti cambio la struttura, non me ne frega niente» (ride, n.d.r.).
Rimanendo sul discorso collaborazioni, mi ha colpito il feat con Yung Stalin della P38 gang: hai fatto parte della prima gang del rap italiano e hai coinvolto l’unica gang che, seppur in maniera estrema, ha mai preso delle posizioni politiche. Secondo te il futuro del conscious rap, o comunque del rap più politicamente impegnato, assomiglia alla formula che hanno proposto loro?
L’elemento veramente forte loro è quello di essere riusciti a mixare una formula musicale sicuramente rap ma molto moderna e tendente al trap, depurata dall’elemento gangsta e criminale, aggiungendo quello politico, ma forse sarebbe più proprio dire terroristico. Hanno creato un mix che secondo me è vincente. L’ho proposto a Yung Stalin perché loro stessi mi hanno detto che la roba che facevo io, quel combat rap con i riferimenti agli anni ‘70, soprattutto nel periodo Fuoco e fiamme, è stato formativo per quello che loro fanno adesso.
Detto questo, al momento vedo due direttrici dominanti: da una parte c’è il rap mainstream, non saprei neanche dirti (come dice giustamente Fabri Fibra) se il rap si è avvicinato al pop o il pop al rap, una via che rispetto profondamente ma che non sento mia; c’è poi una seconda via più prettamente underground che ha avuto il grande merito di portare in Italia un po’ lo stile Griselda e di rimettere le rime al centro, ma che spesso ha il limite di chiudersi nell’esercizio di stile o nella produzione in serie industriale di strofe, che rischia di essere l’altra faccia della medaglia di quella prima via.
Secondo me c’è una possibile terza via, quella che poi se ci pensi è la declinazione naturale del rap, dentro la quale c’è il conscious rap, lo storytelling, il rap più militante che fa la P38: mi verrebbe da dire “torniamo al messaggio”, alla roba che fai e resta. Io auspicherei che quello fosse il futuro (che allo stesso tempo è anche il passato), ma la mia non è una previsione, è una speranza.
C’è un virgolettato di Marcos riportato da Robert Collier (Commander Marcos Identifies With All, San Francisco Chronicle, 13 giugno 1994) che vorrei citarti: «Marcos, la quintessenza dell’anti-leader, insiste che la sua “maschera nera è uno specchio, così che Marcos è un gay a San Francisco, un nero in Sudafrica, un asiatico in Europa, un Chicano a San Ysidro, un anarchico in Spagna, un palestinese in Israele, un indio maya negli stretti di San Cristobal, un ebreo in Germania, uno zingaro in Polonia, un mohawk in Quebec, un pacifista in Bosnia, una donna sola in metropolitana alle dieci di sera, un contadino senza terra, un membro di una gang in una baraccopoli, un operaio senza lavoro, uno studente infelice e, naturalmente, uno zapatista sulle montagne”».
La sua maschera ha funzionato come espediente per rappresentare anche le battaglie di altri. Faccio questo parallelismo perché, tornando al rap, nella tua discografia è sempre presente la volontà di raccontare eventi storici e fatti di cronaca che non ti toccano in prima persona e vanno oltre la dimensione strettamente autobiografica. Vorrei proprio chiederti di più riguardo questa impronta storica che dai allo storytelling praticamente da Shoot a blow in poi (primo pezzo pubblicato da Ted Bee, che ricostruiva la storia degli USA in ordine cronologico, n.d.r.), tracciando una linea inedita in Italia.
Innanzitutto, grazie! Parti dal presupposto che per me la dimensione collettiva è sempre stata importante anche per ragioni di aderenza a determinate idee politiche. Ho avuto poche intuizioni nella vita: quella che ho avuto già ai tempi che facevamo rap in tre e oggi che lo facciamo in un milione è ancora più importante è che devi trovare la tua identità senza essere assimilabile ad altri. Il fatto trovi in me questo marchio di riconoscibilità vuol dire che forse nel mio piccolo ce l’ho fatta!
All’inizio ho cercato un po’ di tirare le somme su quali erano le mie passioni e i miei interessi, cosa mi piaceva dire e cosa mancava in quella tipologia di mercato dei tempi, e ho pensato che appunto raccontare la storia degli Stati Uniti d’America in Shoot a blow piuttosto che dei misteri della Repubblica italiana potesse essere una “fetta di mercato”, per quanto fa ridere il dire così, non coperta.
Poi in alcuni dischi ho avuto l’esigenza contraria: quando sono uscito con Young Veteran era un momento della mia vita in cui proprio mi ero detto «fino ad oggi ho parlato tanto di noi» e allora magari di aprire un po’ più a me stesso.
Oggi secondo me viviamo il problema contrario, c’è un’attenzione ossessiva da parte di tutti all’io e alle proprie personali esigenze e stiamo drammaticamente perdendo di vista la dimensione sociale e comunitaria in cui siamo inseriti, quindi, se raccontare anche banalmente storie di altri o storie di gruppi può aiutare a portare un po’ di consapevolezza per me è importante.
Rispetto al subcomandante Marcos, al di là dei giochi di parole con Marco (nome di battesimo di Ted Bee, n.d.r.) e con Narcos, che in ambito rap torna più volte, lo considero un personaggio molto attuale nella sua inattualità: per quelli della mia generazione, la generazione G8, il subcomandante Marcos era Che Guevara, invece mi sembra la sua figura si sia un po’ persa oggi, anche perché lui si è ritirato.
E l’elemento della maschera è molto significativo, in una società dove oggi tutti tendiamo a rendere pubblici tanti elementi che sarebbe bene preservare nella vita privata; il fatto di coprire il proprio volto perché dietro il proprio volto può esserci chiunque è un bellissimo insegnamento, che do in primo luogo a me stesso. Un altro monito, tornando all’annuncio di Vite Parallele, è che Marcos a un certo punto si è ritirato perché non aveva più un cazzo da dire, bisogna ricordarsi che non è necessario esprimersi su tutto a tutti i costi tutti i giorni.
Colgo anche la palla al balzo per un’altra domanda sull’argomento: visto che dal 2020 hai avviato anche il format divulgativo su Youtube “A scuola con Ted Bee”, secondo te il rap può avere un risvolto didattico? Magari proprio nella forma di storytelling…
Assolutamente sì! Peraltro, già ai tempi quando portavo avanti quella rubrica che era nata ai tempi del covid, mi ricordo che qualche testata aveva utilizzato proprio l’espressione “rap didattico”, che potrebbe far parte di quella terza via e di cui ti parlavo prima. Sicuramente sì, poi ci sono altri esempi probabilmente che lo fanno anche di più, mi viene in mente Murubutu.
Ormai il rap grazie alla sua svolta è diventato un linguaggio: rispetto a qualche generazione fa, in cui era solo la canzone d’amore, la protesta o la pubblicità, grazie allo sforzo di molti e all’avvicinarsi di tanti, ci si rende conto che col rap si può dire qualsiasi cosa. Magari arriverà quello che fa divulgazione scientifica col rap, non lo escluderei! Ormai è un linguaggio in grado di coprire contenuti e tipi di comunicazione differenti.
Ora ti faccio una domanda da fan del tuo collettivo, te la sei un po’ cercata con la barra in Dogo Gang Bang «chiaro che la gente aspetta una reunion stile Oasis». Dopo la reunion dei Club Dogo si potrebbe smuovere qualche cosa con la Dogo Gang?
Cercherò di risponderti con assoluta sincerità: secondo me da una parte quella cosa c’è già stata nell’album di Don Joe, poi non è che io non sia un fan delle reunion. È chiaro che anche a me viene la lacrimuccia quando vedo il mio gruppo che si è rimesso insieme, però tanti progetti hanno dato da un punto di vista artistico tutto quello che potevano dare ed è difficile pensare che possano aggiungere qualcosa di più. Secondo me la Dogo Gang rientra in questa categoria.
Ci sono nella musica anche delle cose che si sono interrotte prima che potessero sbocciare del tutto: quando si sono sciolti i Cosang ho avuto le stesse sensazioni di quando nel ‘95 Marco Van Basten uscì e disse «mi ritiro»; un’altra reunion che mi piacerebbe vedere è Carl Brave x Franco126, perché dopo un disco così (Polaroid, n.d.r.) secondo me c’è ancora spazio per altro.
Con questo non vuol dire che ci siano delle frizioni o delle divisioni, lo dico anche contro il mio interesse perché avrei soltanto da beneficiarne però secondo me la Dogo Gang in quel periodo come collettivo di artisti ha dato il massimo. Fosse un momento sul palco in cui si celebra il ricordo, simile a quello con la Spaghetti Funk durante la reunion degli Articolo 31, andrebbe benissimo, però da un punto di vista meramente discografico certe cose non sono per forza necessarie.
Per concludere, ci consiglieresti una lettura e un disco che ti hanno preso ultimamente?
Ho letto ora La società senza dolore di Byung-chul Han. Lui insegna Filosofia all’Università di Berlino ma scrive libri molto accessibili. Questo è un libricino di settanta pagine, perfetto se uno vuole qualcosa di poco impegnativo con un buon contenuto: parla di come nella società occidentale stiamo sempre più escludendo la dimensione del dolore dalle nostre vite.
Per quanto riguarda gli ascolti, nell’ultimo periodo mi sono riproposto ascoltare tanta roba della musica italiana degli ultimi dieci anni, e sono andato a recuperare Wow, un vecchio disco dei Verdena diviso in due parti, che secondo me potrebbe essere tranquillamente considerato dal 2000 in poi il miglior disco di musica italiana.
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