N.B.: l’articolo è stato scritto in collaborazione con Alessio Marras Sitzia
A cavallo tra la fine degli anni 80’ e l’inizio di quella che molti considerano l’età dell’oro del rap, New York attraversava uno dei momenti più delicati della sua storia. L’aura fresca, stilosa e colorata che i bassi e gli 808 dei principali dischi hip-hop del tempo dipingevano, venne sgretolata dalla violenta ondata di crack che sconvolse la grande mela, raggiungendo l’apice proprio nel 1990.
Il narcotraffico e i risultati della massiccia politica di gentrificazione, che vedeva centinaia di famiglie (perlopiù afroamericane e latine) incastrate come sardine tra le mura delle case popolari, furono i principali fattori che influirono sull’aumento del tasso di criminalità.
Le strade buie ed infestate della “città che non dorme mai”, erano illuminate dai colpi di pistola e dalle sirene, che si facevano spazio in un labirinto dominato da anime prive di destinazione, ormai ridotte a tappeti su marciapiedi abbandonati.
La violenza dilagava così come il numero di morti, e la vita di quartiere non era così tesa e pericolosa da almeno 20 anni. Da South Jamaica (Queens) a Crown Heights (Brooklyn), fino ad Harlem, l’unico imperativo era: sopravvivere.
Per dare dei riferimenti precisi, si pensi che anche i tassi di disoccupazione nella città di New York avevano superato quelli della Grande Depressione del 1929. La culla della cultura hip hop, oramai, non era altro che una polveriera e un teatro di violenza aggravato dalle tensioni razziali che hanno portato a numerosi scontri e altrettante rivolte.
Nel frattempo, come accennato prima, a mietere il maggior numero di vittime fu la diffusione del crack. Surrogato della cocaina, per questo meno costoso, divenne la droga per eccellenza nei quartieri più disagiati, schiavi di un’emarginazione che ha radici ben più profonde, che l’avvento del freebase non fece altro che aggravare.
Quelli, erano anche gli anni di Goodfellas, di Bronx e Carlito’s Way che con lenti sempre diverse raccontavano di una parte di New York, vecchia e nuova: quella delle bande, delle associazioni a delinquere, degli omicidi e delle famiglie d’onore, tuttavia senza aver mai puntato la cinepresa sulle condizioni del ghetto, e della comunità da esso abitata.
In fasi storiche disastrose come queste, spesso e volentieri si sente citare la storiella della rosa nata dal cemento o della scoperta di un diamond out the rough, ma quello che, al secolo Nasir Jones, compie nel 1994 è discutibilmente l’opera di narrazione più sofisticata e reale della SUA New York, nonché la Bibbia per ogni nuovo discepolo della “doppia H”.
Illmatic è un testamento lirico di strada, partorito dalla raffinata mente di un ragazzo appena ventenne, i cui occhi avevano tuttavia testimoniato da subito gli orrori e le disperazioni di una città la cui drammaticità ne inquinava, o alimentava, le fondamenta.
[…] each block is like a maze
Nas – N.Y. State Of Mind (Illmatic, 1994)
Full of black rats trapped, plus the Island is packed
From what I hear in all the stories when my peoples come back
Black, I’m livin’ where the nights is jet-black
The fiends fight to get crack, I just max, I dream I can sit back
And lamp like Capone, with drug scripts sewn
Or the legal luxury life, rings flooded with stones, homes
I got so many rhymes, I don’t think I’m too sane
Life is parallel to Hell, but I must maintain […]
La copertina non è mai il libro, ma spesso ne raccoglie l’essenza. Quella di Illmatic nasconde una dualità che non sembra essere lasciata al caso o al qualunquista esercizio di stile di un improvvisato critico. Al primo sguardo, si è immediatamente catturati dagli occhi penetranti di un giovanissimo Nasir il cui volto, a seconda dell’interpretazione, sembra dissolversi nelle strade di Queensbridge con tutti i suoi peccati e pericoli, ovvero emergere dal buio che troppo spesso non lascia scampo.
Così, senza aver ancora ascoltato una singola traccia, si può percepire il complesso groviglio di emozioni, speranze e storie compresse in appena 40 minuti di frenetiche ed articolate rime neorealiste di uno dei più prolifici poeti del ghetto.
New York dentro Illmatic, un frenetico cuore dissanguato.
La seconda metà degli anni 90’ vide New York tappezzata da poliziotti armati fino ai denti. L’operazione di distribuzione delle forze dell’ordine era votata al raggiungimento di obiettivi di massicce ed aggressive politiche criminali volute dall’allora amministrazione Giuliani; tracce di primissimi disordini sono sparse nella storia di “Gotham” durante i primi anni dell’ultimo decennio del XX secolo.
Per comprendere al meglio le fondamenta di un album come Illmatic, diventa cruciale tenere rivolta l’attenzione verso il clima politico-sociale in cui questo nasce e si sviluppa.
La Crown Heights Riot nel 1991, esplosa a seguito della morte di un bambino, Gavin Cato, travolto da un’auto durante il corteo di Menachem Mendel Schneerson che si stava tenendo su una strada di Brooklyn, esacerbò le già esistenti tensioni tra la comunità afroamericana ed ebrea. Tensioni razziali che contribuirono a rendere ancora più complicati i rapporti con la polizia, vista l’accusa da parte della comunità nera di aver confermato l’esistenza di doppi standard inaccettabili, che finivano per gravare nuovamente su di essa.
Nello specifico, nei giorni successivi all’incidente, diversi cittadini denunciarono la circostanza per cui, ad essere portato immediatamente all’ospedale non fu il giovane Gavin, poi morto, ma l’automobilista che aveva provocato l’incidente, di origini ebraiche. Ad anni di distanza continua a trattarsi di una falsa informazione che però, al tempo, costituì la principale ragione che portò all’innescarsi del conflitto.
Due anni più tardi, nell’estate del 1993 un corteo venne organizzato dalla Patrolmen’s Benevolent Association, il principale “sindacato” per i poliziotti di New York. La manifestazione venne organizzata per protestare contro l’iniziativa dell’allora sindaco David Dinkins (primo sindaco afroamericano di New York, eletto nel 1990), la quale puntava alla creazione di una agency civile, volta ad investigare sulle condotte illecite e gli abusi di ufficio compiuti dai poliziotti del distretto.
Le controllate tensioni iniziali esplosero non appena una folla di 4000 persone incitò all’assalto del Municipio, al quale presero parte molti dei 3000 poliziotti presenti alla rally. A quel punto, con una massa di persone ormai allo sbaraglio, ogni tentativo di contenimento divenne vano e la polizia si rese responsabile di diversi assalti a giornalisti, donne e afroamericani.
Capire il panafricanismo, capire Nas.
C’è un altro aspetto di New York che non può essere tralasciato e che collega la vita di Nasir alla sua musica: l’importanza delle sue radici.
Suo padre, Charles Jones III, musicista jazz e blues di New York, aveva scelto di adottare lo pseudonimo di Olu Dara, in virtù delle sue origini nigeriane. Il legame tra Nas e la famiglia Jones è strettissimo ed è stato esaminato nel dettaglio dal documentario del 2014 Nas: Time Is Illmatic.
A fare da filo conduttore però c’è un sostrato che raramente viene fatto emergere quando si parla di Nas e di tanti rapper afroamericani.
Già nella prima metà del XX secolo, nella comunità afroamericana iniziava a serpeggiare una sorta di risveglio spirituale che culminava con il ritorno alle proprie origini. Ad emergere erano le prediche di Wallace Fard Muhammad, di probabili origini neozelandesi, il cui successo riscosso gli ha permesso, pur non essendo nero, di dichiarare di provenire da La Mecca.
La comunità nera locale pendeva dalle parole di Wallace, che fonderà vari movimenti sulla base di una interpretazione del Corano e delle leggi dell’Islam, culminati nel 1930 nella Nation Of Islam. Tuttavia, a dare una maggiore spinta al movimento è stato il suo successore, Elijah Muhammad, riuscendo ad aggiungere nozioni di teosofia a ciò che a tutti gli effetti era una setta pur riconoscendo a Wallace che le sue parole provenissero direttamente da Allah.
Elijah sosteneva, per l’appunto, un ritorno alle proprie origini, sostenendo la teoria secondo la quale i discendenti degli schiavi avrebbero dovuto immergersi nei costumi e nella religione del loro paese di origine, che per la maggioranza era l’Islam. L’obiettivo finale della Nation Of Islam sarebbe stato, dunque, creare una intera comunità nera e musulmana all’interno degli stessi Stati Uniti.
Gli insegnamenti della Nation Of Islam, anche grazie ad adepti come Malcolm X e, soprattutto, Muhammad Ali (nato Cassius Clay, ma il cui cambio di nome aveva nella Nation Of Islam la motivazione principale), hanno avuto un eco sempre maggiore.
Ad arrivare anche nel rap però non è stata prettamente la Nation Of Islam quanto una costola, la Five Percent Nation, nata dal dissidente Clarence 13X. Secondo la Five Percent Nation, l’85% della popolazione mondiale è reso ignorante da un 10% che conosce la verità sull’esistenza di Dio ma non la vuole condividere e dunque il restante 5% è chiamato a illuminare il resto del mondo tramite gli insegnamenti dei righteous teachers. Per la teoria dei Five Percenter ogni uomo nero è l’incarnazione di Dio ed è artefice del suo destino.
Negli anni ’80, i testi di Rakim, dei Poor Righteous Teachers, di Mos Def e dei Public Enemy erano impregnati di riferimenti e di slang direttamente ricollegabili alla teoria sopracitata e alla cosiddetta Matematica Suprema.
Dalla Zulu Nation ai cypher, provenienti dalle pratiche dei righteous teachers, diventati poi parte integrante della cultura hip hop così come la knowledge of self e la scienza teosofica come vero sapere.
A fare da megafono per gli insegnamenti divini di certo fu il Wu-Tang Clan il quale assorbì, in maniera quasi maniacale, la teologia e il linguaggio criptico (per i profani) dei Five Percenter, tanto da incorporarlo nelle proprie rime che più di altri artisti esprimono il legame profondo ad un culto così enigmatico. La street knowledge veniva così elevata a sapere privilegiato, accessibile esclusivamente tramite la comprensione e lo studio della Matematica Suprema.
Il sistema di simboli e numeri presenti in buona parte della discografia del Wu incorpora concetti ben più complessi la cui assimilazione comporta l’elevazione dell’uomo (God) e della sua mente. Testimonianze di tutto ciò possono ritrovarsi in tracce come Knowledge God di Raekwon:
Why’s my niggas always yellin’ that broke shit
Raekwon – Knowledge God (Only Built 4 Cuban Linx…, 1995)
Let’s get money, son, now you want to smoke shit
Chill, God, yo, the sun don’t chill, Allah
What’s today’s mathematics, son? Knowledge God
o Da Mystery of Chessboxin’ in cui U-God scrive:
I’m pushing force, my force you’re doubting
Wu-Tang Clan – Da Mystery Od Chessboxin’ (Enter The Wu Tang, 1993)
I’m making devils cower to the Caucus Mountains
Nel decennio successivo, la filosofia della Five Percent Nation si è affermata grazie ad artisti come Jay-Z, i Brand Nubian e lo stesso Nas, con quest’ultimo che però se ne allontanerà fino ad abbracciare una filosofia personale senza connotazioni religiose.
A oggi, nella scena rap statunitense, se si vuole approfondire la teoria dei Five Percenter, consigliamo l’ascolto di Jay Electronica, in particolare: A Written Testimony.
Nel caso di Nas e di Illmatic, il collegamento alle proprie origini è rappresentato non solo dalla presenza di suo padre in Life’s a Bitch, in cui anche l’apporto di AZ risulta incredibile, ma dalle innumerevoli incursioni jazz e dai riferimenti a grandi artisti afroamericani, come Michael Jackson e i Jackson 5. Questo tema sarà ricorrente in tutta la discografia di Nas, con pezzi iconici come Africa Must Wake Up e in gran parte di Distant Relatives (2012), l’album collaborativo con Damian Marley, in cui è contenuta.
The Genesis
A distanza di trent’anni, Illmatic si conferma l’origine, il punto di partenza per l’avvicinamento e la comprensione del mondo dell’hip-hop, con tutto ciò che ne fa parte. Una videocamera che si fa spazio tra le trappole, i pericoli e le storie della New York del tempo, narrata dalla voce grattata di chi la notte l’ha mangiata a morsi.
Dagli inconfondibili stridii della metropolitana in The Genesis, al thriller sanguinoso di N.Y. State of Mind, al ghetto gospel controfirmato da un giovanissimo A.Z. in Life’s a Bitch, fino alla romantica e straziante dedica, in One Love, ai compagni di vita il cui destino non ha offerto nulla di confortante al di là di un gelido letto di cella.
Il trentesimo anniversario di questo disco, eccetto il lato prettamente celebrativo, costituisce la prova, in sé stessa, della vittoria sul tempo di rime che di tempo non ne hanno, capaci di rapire l’immaginario dell’ascoltatore, catapultandolo in una New York che sembra non voler mai cambiare, vittima e carnefice, madre e nemica.
Con la collaborazione di Alessio Marras Sitzia.
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