Vi raccontiamo l’evoluzione della “stessa canzone” nel tempo.
Nel saggio “Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato” viene riportata la
seguente dichiarazione di Alberto Tronti:
“Il Rap è sempre la stessa canzone a cui, di volta in volta, cambiano le parole […] è come fossimo
costretti ad ascoltare in continuazione “anghingò tre civette sul comò” riproposto in mille versioni
diverse.”
Un’affermazione questa che ha fatto storcere il naso a molti cultori del genere che invece connotano il rap come un genere in continua evoluzione e lo piazzano, anzi, tra i generi più versatili in assoluto.
L’affermazione del Tronti non è però da cestinare, anzi, è da analizzare. Sulla carta ha ragione lui. Il
rap come genere musicale è tra i più schematici e quadrati: siamo sui quattro quarti, si usano
generalmente tre strofe alle quali segue un ritornello, si usa quella che agli occhi di un profano è
sempre la stessa tecnica di “canto” e da questa base nasce poi il genere.
Se non si effettua un’analisi più approfondita, al netto del superfluo paragone con la filastrocca, il
nostro non ha detto nulla di sbagliato. Ma proprio per questo siamo interessati a proporre un
excursus su quelli che sono i maggiori cambiamenti del rap italiano, perché di cambiamenti ce ne
sono stati tanti e meritano tutti attenzione.
1. Anni ’80: From Tusk Till Jovanotti
Quel che il rap era in Italia, ma in generale in tutta Europa se si escludono i Clash, tra la fine degli
anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, si può semplificare come una riproposizione pedissequa di quel
succedeva negli Stati Uniti. Anche pionieri come Speeker Deemo e le piccole scene regionali, come
quella che creò Afrika Bambataa a Città di Castello, non riuscirono ad entrare nel mercato o a
smuovere troppo gli equilibri della scena. Il rap sembrava non poter attecchire in Italia e le case
discografiche ne erano convinte. Tutte tranne una: la FRI Records di Claudio Cecchetto, che vide
in un giovane disk jokey romano chiamato Lorenzo Cherubini la possibilità di creare qualcosa di
nuovo. Era il 1988 e quel giovane firmerà quello che da molti è considerato il primo disco hip hop
italiano: Jovanotti for President.
L’opera prima di Cherubini, che da qua in poi assumerà proprio il nome di Jovanotti, presentava un
rap molto diverso da come era davvero. Innanzitutto le tematiche erano più leggere e scanzonate,
erano pensate per i giovani sì, ma dovevano far sorridere l’adulto perché Jovanotti era un prodotto
per tutta la famiglia; abbiamo quindi inni al divertimento, all’amore ed ai buoni sentimenti, che si
discostano parecchio dalle tematiche socialmente impegnate del rap di quegli anni. In secondo
luogo Jova rappava sì su un quattro quarti, ma il tutto era accompagnato da tonalità molto rock,
per cercare di richiamare l’idea di un prodotto proveniente dall’America (basta notare la copertina a stelle e strisce), e momenti cantati che poco avevano a che fare con quel che era il rap in quel
momento storico. Jovanotti aveva fatto qualcosa di nuovo: aveva creato, volente o nolente, il rap italiano.
2. 1996, Gli Articolo 31 al Festival Bar.
Il merito di Jovanotti non era stato tanto quello di far conoscere il rap alle masse, quanto quello di
far capire alle case discografiche che il rap, allora visto come un gioco, poteva funzionare per
vendere, per essere un genere di punta. La conferma definitiva la daranno l’ultima scommessa del
produttore discografico Franco Godi: gli Articolo 31.
Quando il rap diventa “canzone italiana”.
Il duo milanese, formato dal rapper J-Ax e dal DJ e beatmaker Dj Jad, calcava i palchi italiani già
dal 1992 riuscendo in più di un’occasione a far capolino fuori dall’underground, ma sarà proprio quel 1996 che cambierà per sempre sia la loro carriera che il panorama musicale italiano.
“Così Com’è” è sì un disco rap a tutti gli effetti, ma presenta delle innovazioni mai viste prima.
L’hip hop viene amalgamato alla musica leggera italiana e le tematiche, pur restando sul sociale,
vengono alleggerite e rese più divertenti. All’interno abbiamo campionamenti da classici della
musica italiana, ad esempio “Gianna” di Rino Gaetano in “Così e Cosà“, e collaborazioni con voci note quali Paola Folli e Lucio Dalla. Allo stesso tempo il funk ed il punk, che caratterizzeranno
pesantemente la produzione successiva del duo, iniziano a farsi notare nelle influenze.
Gli Articolo conquisteranno certificazioni su certificazioni, diventando i primi artisti rap ad
ottenere un disco di diamante e partecipando al Festivalbar, massima manifestazione della musica pop italiana, diventando a tutti gli effetti artisti di peso nella musica nostrana. Sono stati la dimostrazione del fatto che Jovanotti non era stato un’eccezione, ma che il rap per le masse si poteva fare.
Dal successo del duo milanese nacquero molti gruppi che riuscirono a ritagliarsi un posto nella scena che conta replicando la formula vincente ideata da Ax, Jad e Godi, come i Sottotono o i Gemelli Diversi, e qualche anno dopo, verranno citati come influenza anche da un trio milanese che avrà un ruolo molto importante in quel che sarà il rap italiano: Le Sacre Scuole, che da lì a poco diventeranno i Club Dogo.
3. 2004, Fabri Fibra rompe la bolla
Il successo degli Articolo 31 non ebbe solo effetti positivi: molti artisti rap virarono verso la
formula più pop e collaudata, mentre chi non lo faceva restava nel limbo dei misconosciuti in modo ancora più radicato di prima. Il cambio di rotta di J-Ax verso il punk rock, pur producendo una pietra miliare come “Domani Smetto“, contribuì ancora di più ad allontanare l’attenzione dal rap.
Per far tornare il rap sulla bocca di tutti serviva qualcos’altro, qualcosa di rottura, non bisognava più cercare un compromesso, bisognava rompere le regole. E’ qui che la nostra storia lascia le grandi città e si sposta nella periferia marchigiana, a Senigallia, dove viveva un certo Fabrizio Tarducci, in arte Fabri Fil.
Quando il rap ha rotto gli schemi della canzone.
Anche il Tarducci aveva un gruppo, insieme al produttore Lato erano Gli Uomini di Mare. Dopo la
prima uscita “Dei di Mare quest’el Gruv” nel 1994, passata in sordina ma comunque recensita positivamente dalla rivista “Aelle” di Paola Zukar, il duo si fece notare in varie compilation nella fine degli anni 90′, partecipando anche al progetto “Piante Grasse” di DJ Myke e collaborando a lungo con Inoki, fino a quando nel 1999 rilasciarono “Sindrome di Fine Millennio“.
La Sindrome ebbe un grande successo nell’underground ma non poteva passare in radio proprio a
causa della traccia più popolare: “Verso altri Lidi” utilizzava senza permesso il campione di “Is There
Anybody Out There” dei Pink Floyd.
Ma Fabri Fil non si arrende, cambia nome in Fabri Fibra e coadiuvato dai beat di Neffa, scartati da
quello che sarebbe dovuto essere “SxM 2”, realizza “Turbe Giovanili“. Siamo sempre nel concious hip
hop, molto intimista ed introspettivo ma di nuovo con l’obiettivo di andare in major. Il caso volle
che Neffa non riuscì a fornire a Fibra le tracce separate del mix rendendo quindi “Turbe Giovanili”
impossibile da passare in radio, di nuovo.
Fibra si ritirerà a Londra per un periodo, pubblicando anche un nuovo EP degli Uomini di Mare,
Lato e Fabri Fibra, che non riscosse molto successo. Al suo ritorno in italia, complici anche la terribile esperienza lavorativa londinese, il suo percorso con le droghe e la frustrazione accumulata realizzerà un disco che se ne frega delle Major: “Mr. Simpatia“.
“Mr. Simpatia”, oltre ad essere un’eccellenza tecnica e contenutistica mai vista in Italia, era un disco violento, sboccato e sporco. L’atmosfera è tanto cupa quanto comica, si parla sì di tematiche sociali, quali la politica, la religione e l’ipocrisia dell’italiano medio, ma tutte queste sono leggibili solo dopo aver spostato un velo di Maya fatto di sessismo, gore, abuso di droghe e cronaca nera.
Paradossalmente, Fibra sarà contattato da Universal e nel 2006 si trasferirà a Milano per scrivere
“Tradimento”, suo terzo disco e più grande successo del rap italiano dai tempi di “Così Com’è”.
Sempre nel 2004 i Club Dogo, che hanno perso un membro, Dargen D’amico, ma guadagnatone
un altro, il produttore Don Joe, pubblicano “Mi Fist”, allo stesso tempo un giovanissimo freestyler,
Mondo Marcio, pubblica il disco omonimo. Tornando al 2006 i Dogo realizzeranno “Penna Capitale”,
Marcio “Solo Un Uomo”, Dargen “Musica Senza Musicisti”, J-Ax il suo primo disco solista, “Di Sana
Pianta” e si farà notare un altro giovanissimo Mc: Marracash. Era nata la scena milanese.
Ma l’underground non resterà a bocca asciutta, seguendo la lezione di “Mr. Simpatia”, a Roma, si
fanno notare Noyz Narcos ed il suo Truceklan.
4. 2012, Fedez e Salmo, due facce della stessa medaglia
Gli artisti rap ormai erano riusciti ad entrare nel mercato italiano di prepotenza e tra alti e bassi, non ne uscivano da ormai vent’anni, rivoluzionandosi e cambiando il mercato stesso.
Ma non bastava. La fame è da sempre una delle più importanti caratteristiche dell’hip hop e
prendendo spunto sia delle etichette indipendenti create dai big americani, sia dall’Honiro Label di
Canesecco, nata proprio in antitesi al Truceklan, i milanesi decideranno di entrare nel mercato come imprenditori. Nascono quindi Roccia Music di Marracash, sulla quale torneremo dopo, Tempi Duri di Fabri Fibra e Paola Zukar e soprattutto Tanta Roba, di Guè Pequeno, DJ Harsh e Franco Godi.
Il primo artista a firmare con Tanta Roba fu il milanese Fedez, seguito da artisti indipendenti del
nord italia, quali il torinese Ensi o la Troupe d’Elitè, dai veterani dell’Honiro Gemitaiz e Madman e
sopratutto il sardo Salmo.
Quando il rap diventa la canzone che va di moda.
Fedez presenterà un rap molto diverso da quello visto fin’ora. Sarà un rap più teen, tecnicamente
avanguardistico e che mischierà i suoni dell’house e della dance con la scrittura del pop punk anni
2000, mantenendo alla base una matrice fortemente hip hop. Fedez con “Il Primo disco da venduto” del 2012, ma soprattutto con “Sig. Brainwash” del 2013 e “Pop-Hoolista” del 2014 sarà uno dei più grandi successi della musica italiana e detterà standard che anche ai quali anche i big affermati dovranno loro malgrado piegarsi.
Salmo è letteralmente la stessa storia, parte da una matrice punk (meno pop e più hardcore) ma
legata all’hip hop ed innoverà l’underground utilizzando, a differenza del collega, la techno e la
dubstep. Per il resto, come abbiamo detto, percorso analogo: nel 2012 esce per Tanta Roba con
“Death USB”, si fa notare dalle masse nel 2013 con “Midnite” e farà un grande ed inaspettato successo nel 2015 con “Hellvisback“. (Abbiamo parlato delle analogie tra i due qua: LINK)
I due artisti alzeranno ogni asticella possibile, sia per quanto concerne i numeri, sia per la qualità
della scrittura e per la ricercatezza dei suoni. Con Fedez e Salmo, anche la casalinga italiana sapeva cos’era il rap e lo apprezzava. Ormai la missione era compiuta, il rap era uno dei generi di punta della musica italiana a tutti gli effetti, ma perchè diventi Il genere di punta bisogna aspettare ancora qualche anno.
5. 2016, Sfera e la DPG parlano ai giovani
Verso la fine del 2015 negli Stati Uniti ed in Francia si fanno avanti nuovi suoni all’interno del rap, gli
808 ed i bassi si fanno sentire sempre di più ed ecco che pian piano nasce quello che sarà il
movimento trap.
Quando il rap rivoluziona la canzone, gli usi e i costumi.
Gli artisti italiani non saranno da meno, prendendo esempio dagli USA a Roma si forma la Dark
Polo Gang, che trainata dal produttore Sick Luke, figlio d’arte del rapper Duke Montana,
rivoluzionerà totalmente non solo la musica italiana, ma anche il modo di parlare dei giovani.
Quella della DPG è stata una vera a propria rivoluzione linguistica: termini come “bufu”, “snitch”, “lean” entreranno nel vocabolario comune dei giovanissimi.
A Genova invece, come De Andrè e Paolo Villaggio fecero negli anni 50′, si guardava alla Francia:
nasceva la Wild Bandana, collettivo capeggiato da Izi e Tedua che proneva a loro volta, sì, la trap,
ma amalgamata alla scuola cantautoriale genovese e arricchendola di suoni acustici, rendendola più radiofonica e fruibile.
Milano ovviamente non stava con le mani in mano, emergeva un giovane di talento che sceglierà il nome d’arte di Rkomi e i due volti della vecchia Troupe D’Elite, Ghali Foh ed Er Nyah, si
reinventaranno come Ghali ed Ernia.
Proprio a Milano, sotto l’etichetta di Marracash, Roccia Music, muoveva i suoi primi passi Gionata
Boschetti, Sfera Ebbasta, che col suo primo disco ufficiale, “XDVR”, si farà portavoce e promotore
principale di quella che sarebbe diventata la trap. Il successo di questi giovani, arrivato grazie a
continue collaborazioni tra le tre scene nate più per amicizia e fratellanza piuttosto che per ragioni
commerciali porterà anche artisti non legati canonicamente al rap ad utilizzare suoni appartenenti all’hip hop, rendendolo finalmente, il primo genere in italia.
6. 2017, una Polaroid per qualcosa di nuovo
Bisogna fare un piccolo passo indietro per continuare con la nostra evoluzione, precisamente nella
Roma dell’inzio degli anni ’10. Abbiamo già citato l’Honiro Label, l’unica etichetta indioendente che
negli anni è riuscita a ritagliarsi un posto fisso nella scena pur non essendo a Milano. Molti artisti
sono passati sotto l’egida di Canesecco: i già citati Gemitaiz e Madman, Coez, Mostro, LowLow,
Rancore e molti altri.
Quando il rap ha rivoluzionato la canzone indie.
L’Honiro era l’alternativa meno cupa più tecnica al Truceklan di Noyz Narcos, e mentre questi due mondi crescevano e si “scontravano”, in sordina, un gruppo di amici fonda la 126, un collettivo musicale indipendente che entrerà all’interno del circolo aperto Lovegang di Pretty Solero.
La principale caratteristica della 126 e della Lovegang in generale è quella di ibridare l’indie di
Niccolò Contessa con il rap, prendendo spunto anche in questo caso dalla scuola cantautoriale, in
particolare quella di Franco Califano.
La massima espressione di questo movimento va ricercata in “Polaroid” di Carl Brave e Franco126,
un disco hip hop legatissimo alle tematiche del rap e molto real, ma che meno hip hop non poteva
essere. I due artisti romani riuscirono a creare l’ibrido perfetto per tutte le età e per tutti i gusti ed il
mercato ha ben presto risposto scagliandoli nell’olimpo della musica italiana e ponendo un riflettore su tutta la 126. La forza di “Polaroid” stava proprio nei suoni e nel linguaggio, suoni tranquilli con una chitarra predominante incorniciati da racconti quasi banali e comuni ma messi in poesia dalle penne dei due.
Polaroid aveva settato un nuovo standard e creato qualcosa di mai visto prima, che di lì a
poco avrebbe generato emuli su emuli.
7. 2020, Rondo, Fred de Palma e la ripartizione in sottogeneri
Dopo un periodo di dominio incontrastato della trap, come per ogni fenomeno di massa, abbiamo
assistito ad un’inevitabile stato di ristagnamento del genere, in cui tutto assomigliava a tutto e si
percepiva una sensazione di stasi nella scena italiana.
Ripercorrendo ancora una volta i passi e i trend dell’estero ci sono stati degli artisti capaci di
importare qualcosa di nuovo, un’ondata d’aria fresca fatta di nuove influenze, immaginari e suoni
collaudati fuori dai confini e già certi di essere in possesso delle carte in regola per rivoluzionare,
ancora una volta, il rap.
Quando il rap ha seguito i trend internazionali importando influenze nella canzone italiana.
Il primo nome che viene in mente è sicuramente quello di Rondodasosa, rapper milanese che
sull’onda dei vari Russ Million e Pop Smoke ha scelto di proporre la propria versione
dell’immaginario drill, ponendo Milano (e in particolare il quartiere di San Siro) al centro del
progetto, tanto da impersonificare il ruolo di “cavallo di troia” anche per i suoi amici da cui
prenderà vita successivamente il collettivo Seven Zoo. La scelta di importare questo nuovo
sottogenere ha pagato così tanto da catapultarlo oltre i confini, quasi al livello degli stessi artisti da cui ha preso spunto per elaborare la propria idea di rap.
Un altro che ha seguito lo stesso percorso, sebbene con spunti e origini diametralmente opposte, è
Fred De Palma. Vittima della stasi post-trap ha scelto di reinventarsi “una volta ancora”, citando
proprio un suo brano, e scegliendo di cimentarsi nel Reggaeton, genere già collaudato in Italia ma
che mai nessuno ha saputo interpretare a livello dei grandi nomi latini.
Anche qui il risultato è lo stesso, successo enorme e il paragone con certi giganti del reggaeton non è così fuori luogo. Ma questi due sono solo due esempi della segmentazione che il rap italiano sta riscontrando negli ultimi anni, prima c’era solo il rap “tradizionale”, poi è stato affiancato da qualche variazione (come Salmo con l’hardcore) e infine la trap si è quasi contrapposta ad esso. Ora tutto questo è rimasto ma c’è anche la drill, il reggaeton, le influenze indie, punk, love, addirittura stanno arrivando quelle k-pop coreane, in uno scenario in cui l’ascoltatore troverà sicuramente quello che più lo soddisfa e in cui l’offerta è arrivata ad essere variegata come non mai, forse addirittura troppo.
Conclusione. Il rap, quindi, è sempre la stessa canzone?
Tutte le varie correnti che hanno cambiato il genere, come abbiamo già detto, non si sono esaurite, hanno tutte rivoluzionato qualcosa, ma non sono sparite con l’evoluzione successiva: esiste ancora l’old school hip hop, così come esiste ancora chi fa musica “alla Truceklan” o “alla Trap del 2016”, creando una gamma di scelta che quasi nessun genere può vantare. Tutto ciò porta ad uno scenario ricco di variazioni e diversità, dove abbondano le influenze da altri generi e dove l’identità è sempre al centro di tutto.
Il rap è quindi uno dei generi più interessanti da studiare ed analizzare, proprio per capire la sua
storia che è legata indossolubilmente a doppio filo alla storia della musica italiana.
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