Le radici sono una questione umana, troppo umana, e Aminé non è diverso da tutti noi.
Come accaduto già altre volte, arriva un momento nella carriera di alcuni artisti in cui, questi, con una spinta quasi ancestrale, decidono di indagare il proprio passato se non addirittura arrivando a scoprirlo. Non mi riferisco al passato vissuto, quello dei ricordi, o all’adolescenza, ma a quello che ti scorre nelle vene, di cui non hai testimonianza diretta, quello che le voci dei tuoi nonni e qualche fotografia ricostruiscono per te.
Ecco che dopo due album e diversi mixtapes, Aminé, al secolo Adam Aminé Daniel, fa riemergere il suo passato regalandoci un album che porta con sé tutto.

“13 Months of Sunshine” è la prima vera confessione a cuore aperto del rapper di Portland, Oregon, figlio di immigrati etiopi ed eritrei. Nonostante tutto, è un album per tutti e per qualsiasi momento. Una biografia scandita da ritmi coloratissimi e dalla spiccata e spiritosa emotività di un 30enne, a tratti intrappolato dall’ansia, ma che si sente ancora in fila al parco giochi.
“13 MOS” è il giro di boa, un progetto che era in cantiere da almeno tre anni, pubblicato soltanto quando è sembrato il momento giusto per farlo. A dirla tutta, un ascolto superficiale potrebbe far pensare, soprattutto dopo “KAYTRAMINE’” all’ennesimo “album dell’estate”, stagione il cui destino è comunque da tempo nelle sue mani.
Capiamoci, il ragazzo strambo e malinconico di “Sundays”, “DR.WHOEVER” e “Chicken” è sempre lì; quello che come il migliore dei Pulcinella nascondeva, sotto la maschera buffa, una commedia nera senza spettatori.
Ora però Aminé sembra voler uscire allo scoperto, del tutto.
Dal merch, passando per i sample, per poi arrivare ai tanti skits che intervallano l’album, “13MOS” è un progetto intimo, sicuramente il più intimo ad oggi. Arrivato alla soglia dei trent’anni, Adam, intrappolato nel corpo di un uomo più vecchio del suo spirito, ammette a sé stesso di doversi prendere del tempo per riflettere.
I dieci anni di carriera ormai alle spalle, la depressione, i riconoscimenti e la pressione artistica di portare avanti un sound fedele ma abbia sempre qualcosa da offrire, si fanno sentire.

“13 MOS” diventa quindi una seduta terapeutica, un viaggio culturale e musicale che intreccia, come in un caleidoscopio, la vita privata e familare di uno degli artisti più entusiasmanti dell’ultimo decennio.
Tutto questo mentre immaginate di bere uno spritz ghiacciato con 40 gradi all’ombra. Si, sembra stonare, ma chi conosce già Aminé e il suo catalogo sa a cosa mi riferisco. Una spirale di detti e non detti, di urla che finiscono per confondersi tra ritmi accelerati e pimpanti, a volte diversivi ed altre necessari per evitare un sovraccarico emotivo a cui non siamo pronti.
Tutto si disperde, ma con gentilezza. Un po’ come quelle frasi che urli all’orecchio di chi sta ballando con te, in mezzo alla folla. “13 MOS” assomiglia ad una festa divertentissima dalla quale torni e nel viaggio verso casa finisci per confessare la qualunque a chi si trova affianco a te, lontani dal rumore, che rimane in sottofondo.

Come nell’album visualizer (una ripresa interna ad un taxi che vi scarrozza per le strade di Addis Abeba), il viaggio parte da un luogo ben preciso, l’Etiopia, la terra in cui l’anno dura tredici mesi.
La traccia d’apertura dell’album, intitolata “New Flower”, traduzione letterale di Addis Abeba, è il biglietto d’ingresso nel mondo sfavillante di “13 Months of Sunshine”. Per il Rastafarianesimo, religione che divinizza l’ultimo principe e messaggero d’Etiopia, Halie Salassie, il paese del Corno d’Africa incarna il giardino della creazione, quello che nelle sacre scritture sarebbe chiamato “Eden”. Un luogo puro, il simbolo della speranza e della felicità. A questo punto, per Adam, prendersi cura del suo giardino diventa una questione generazionale. A guidarci per tutto l’album è proprio la voce del padre, Baba (dallo swahili), che con i suoi skits serve da checkpoint per chi ascolta e soprattutto per il figlio. E’ lui che con costanti ed inconsapevoli metafore gli ricorda di prendersi cura del proprio giardino, del proprio fiore, dei sacrifici fatti per essere lì, e di non commettere l’errore di tradirsi.
“I used to do gardening
Aminé – New Flower feat. Leon Thomas (13 Months Of Sun, 2025)
With grandpa, Aminé
He force you to plant
And keep it maintenance and everything
So after you come from school
Then he go to the garden
And maintaining it, uh, giving it water, stuff like that
This is how I grow up”
E’ anche per questo che nel bel mezzo del disco, circondate da un’energia incontrollabile e contagiosa , troviamo tre tracce in rapida successione che lasciano proprio quello spazio di riflessione necessario per riportare tutto dove è, senza perderlo di vista.
“Doing The Best I Can”, “Temptations” e “Be Easier On Yourself” cliccano il pulsante “pausa”, sospendendo l’aria spensierata e giocosa che l’album fino a quel punto respira. Sono momenti catartici, a tratti mesti, difficili ma necessari.
“You and I both bleed
Aminé – Be Easier On Yourself (13 Months Of Sun, 2025)
Don’t you know, growin’ up means you procede?
No matter what happens, stay grounded on both feet
I hear my demons callin’ to me from the nosebleeds
The way I see myself gotta mean something
I guess I’m going up these says
To my younger self, I would say”
Subito dopo però, il carrello torna in cima alla montagna russa, e l’adrenalina ritocca livelli altissimi. I beats danno l’idea di essere stati prodotti in una vasca zeppa di palline colorate, appena lanciatisi da un enorme scivolo rosso.
“13 Months of Sunshine” è un’ode alla musica elettronica. Ogni strumentale risente di influenze jungle, dubstep e house. Ritmi veloci che spennellano le barre spensierate e divertenti del ragazzino di Portland di un colore al neon. Per il boom-bap tradizionale o la trap c’è poco spazio. Il sound è fresco, “estivo”, le produzioni elettroniche portano Aminé ad un altro livello. La sua versatilità non è mai stata una sorpresa, ma in un momento in cui di “diverso” se ne sente poco, un progetto così ispirato diventa una cometa da non perdere.
Con “13MOS” Aminé non aveva nulla da provare, la sua musica è sempre motivo valido per fermarsi ed ascoltare. Quello che sorprende è la costante crescita artistica dimostrata fino ad oggi. Tutto è curato nei minimi dettagli, a partire dal rollout degli album, alle performances fino al merchandise.
Nonostante sia difficile immaginare, a fine anno, questa perla tra i candidati ad album dell’anno, mi basta sapere che Aminé rimanga uno del popolo, uno che dopotutto, non è lontano da nessuno di noi.
Se l’aldilà esiste, spero che chi si occupa della musica lì sappia cosa far partire non appena il cielo si fa più grigio.
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